11 settembre, 20 anni dopo l’addio alle armi degli Usa

NEW YORK Secondo l’ultimo censimento, il 24 per cento degli americani ha meno di 20 anni. Non era cioè ancora nato quando 19 jihadisti di Al Qaeda, l’11 Settembre del 2001, dirottarono quattro aerei di linea per compiere i più grandi attacchi terroristici mai visti in un Paese occidentale. Questo ventesimo anniversario che cade oggi ha dunque per loro, e per tutti coloro che allora erano solo dei bambini, il sapore di una lezione di storia più che essere il ricordo di una ferita subita in prima persona e ancora dolorante.

11 settembre, le commemorazioni

Come ogni Undici Settembre, anche oggi le commemorazioni seguiranno il severo cerimoniale ripetuto a ogni anniversario, con il presidente Joe Biden che farà visita ai tre luoghi del terrore, Ground Zero a New York, il Pentagono a Washington, e i campi della Pennsylvania dove si abbatté il quarto aereo quando i passeggeri si ribellarono ai dirottatori. I nomi delle vittime verranno lentamente scanditi da parenti e amici, le campane suoneranno e l’inno nazionale verrà cantato con la mano sul cuore.

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Chi ricorda quella mattina di sole insanguinata dalla mano assassina degli uomini di Osama Bin Laden proverà un rinnovato dolore, ma per loro si è aggiunto nel tempo anche il compito sempre più difficile di tentare di spiegare alle nuove generazioni il significato di quella ferita. Il ritiro dall’Afghanistan, preparato dal presidente repubblicano Donald Trump e portato a compimento dal democratico Joe Biden, doveva porre la parola fine a quel capitolo, e in qualche modo consegnarlo definitivamente al giudizio della storia.

Le roventi settimane di agosto, con il ritorno dei talebani non sono state però quella conclusione pacifica in cui Biden sperava. La cronaca delle ultimissime settimane ha voluto altrimenti, e ha ottenuto piuttosto di riportare d’attualità in modo drammatico gli attentati di venti anni fa. Altro sangue è stato versato, altri gruppi terroristici si sono fatti avanti mietendo vite di giovani americani.

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I 13 Marines uccisi da un kamikaze dell’Isis all’aeroporto di Kabul avevano tutti 20 anni o poco più. Come il 24 per cento della popolazione Usa, erano nati dopo o poco prima degli attacchi che avevano spinto il loro Paese a invadere l’Afghanistan. Erano a Kabul con scopi umanitari, per aiutare gli afghani e gli americani a salire sugli aerei e lasciare il Paese invaso nell’ottobre 2001. Anche loro oggi avrebbero cantato l‘inno nazionale e tenuto la mano sul cuore per ricordare solennemente un atto di terrorismo contro il loro Paese, di cui non erano neanche stati testimoni. La loro morte, così a ridosso del ventesimo anniversario, è sembrata a molti sottolineare l’assurdità di una guerra fatta per vendicare quasi 3 mila vite, che alla fine ne è costata molte di più. Di certo il Paese capisce che venti anni sono tanti, e che per la gran parte della popolazione, per tutti quelli che non hanno perso parenti o amici, il ricordo di quella giornata di tragedia nazionale va impallidendo, mentre per i giovani la data diventa sempre di più un capitolo da studiare nei libri di scuola.

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LE NUOVE GENERAZIONI
Basta vedere quanto spazio i media hanno dedicato proprio a loro, a coloro che erano bambini o non erano ancora nati nel 2001. Programmi radio speciali per conversare con il pubblico under-20, paginate del New York Times dedicate a spiegare cosa i giovanissimi sanno di quel giorno e di quel che seguì, documentari e libri dedicati a bambini e teen-agers.

C’è la consapevolezza, difficile da accettare per quanto sia, che le generazioni invecchiano e vengono affiancate da nuove generazioni con nuove e diverse prospettive come successe per la ferita di Pearl Harbor con le giovani generazioni hippie degli Anni Sessanta, venti anni dopo che i giapponesi avevano attaccato la base americana, o come è successo con l’assassinio di John Kennedy venti anni dopo nei dorati e materialistici anni Ottanta: anche le ferite più profonde a un certo punto diventano storia.

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