Agitu Guteda la morte orribile di una donna e di un sogno felice dimenticati in poche ore


Era una risorsa sul serio Agitu Gudeta, questa donna giovane, 42 anni, piegata, mai doma, giunta in Italia dieci anni fa come rifugiata dall’Etiopia e capace di inventarsi un futuro da imprenditrice agricola o, come piace dire, “naturale”, con le sue capre, la sua piccola azienda, le sue battaglie per gli ultimi come lei che le fruttavano le minacce del governo da cui era fuggita, quelle dei valligiani dei Mocheni, degli stupidi, dei razzisti, ma anche tanto rispetto, tanto affetto da chi la sosteneva. Una rifugiata imprenditrice in Italia! Contro le complicazioni inutili, la burocrazia famelica, la diffidenza. Eppure ce l’aveva fatta questa donna adattabile, duttile ma forte come la sua coscienza e la sua voglia di vita. 

Tutto sparito, andato, finito in una tempesta di martellate da un lavorante: uno in certo modo come lei, arrivato su un barcone, clandestino, dal Ghana e Agitu lo aveva preso, messo a badare le sue “capre felici”, gli aveva reso quel futuro che lei stessa si era costruita. Per uno stipendio arretrato di mille euro, Adams Suleimani è diventato feroce, l’ha massacrata, poi ha abusato del corpo agonizzante di Agitu. Storia atroce a chiudere un anno atroce, al limite dell’incredibile. Ma più miserabile ancora, se possibile, la reazione delle vestali benpensanti a partire dai media ufficiali: che hanno, finché potevano, sorvolato sulla matrice del criminale, l’hanno buttata su un razzismo e un sessismo balordi, perché mendaci, perché cinici. Non possono gli apostoli del politicamente corretto, dell’integrazione a tout prix, non possono ammettere che qualcosa sia andato storto, sia finito in tragedia; anche quando il cortocircuito non è più possibile dissimularlo, insistono, si arrampicano sui vetri dei loro ideali o della loro ideologia. Cercano rabbiosi un pretesto, una chiave di lettura improbabile, da battere e battere con lingua di legno. 
Troppe questioni restano aperte se l’integrazione offerta, per giunta da chi si è saputo integrare, non combina con l’integrazione ricevuta. Si finisce per cadere in domande di filo spinato, una su tutte: quante prospettive ha un atteggiamento a senso unico, che rifiuta la lettura problematica, razionale del reale e la sostituisce col libro dei sogni, del lieto fine globalizzato? C’è pure il conflitto di valori tra le ragioni della tutela omnibus e quelle della tutela delle donne e qui il Vangelo dei restiamo umani fa prevalere invariabilmente lo scrupolo per il migrante, sul cui altare anche una donna va, all’occorrenza, sacrificata.

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Destini paralleli quelli di Agitu Guteda e di Adams, il suo carnefice, ma non identici come non uguale era la buona volontà, la voglia di integrarsi, di diventare parte minima ma viva di un tessuto sociale nuovo, attivo. Di certo c’è che Agitu Gudeta era una risorsa davvero, che la sua fine brutale, e assurda, e inaccettabile, priva la comunità di un valore. Una donna generosa, forte, capace, ha trovato la morte non sotto il regime da cui era evasa, e che ancora la insidiava, ma nella tollerante, europea Italia e però per mano di uno sradicato, uno sfortunato come lei. Un selvaggio, capace di accanirsi sul corpo agonizzante, abusato fino alla fine. Storia orribile, allucinante, a suo modo esemplare, che invece è passata via nell’arco di poche ore. Si chiama agenda, ed ha a che fare con la gerarchia delle notizie, che viene stabilita dai media mainstream i quali conoscono la fondamentale verità dell’albero che cade nella foresta: se nessuno lo vede, se nessuno lo sente, non è mai caduto. Agitu domani non sarà mai caduta: conviene a molti non vedere e non sentire il suo martirio, conviene dimenticare, archiviare. 
Tanto, ci sono gli arabeschi della politica, i ricatti incrociati, la disputa fra Conte e Renzi che si contendono il controllo dei Servizi Segreti e avranno le loro preoccupate ragioni, c’è questo stato di sospensione delle libertà democratiche ormai senza limiti e senza termine, c’è la psicosi vaccinale, sanitari che ballano, vippetti che si bucano, sospetti incrociati, accuse reciproche tra le fazioni dei fanatici e degli insofferenti. E c’è, di sfondo, di quinta, la drammatica inadeguatezza di un sistema paese che si accapiglia su emergenze che non può risolvere, che richiederanno anni. 
Agitu non era un albero, era una donna ottimista e valorosa, allevava capre felici, rendeva felici gli altri. Non chiedeva sussidi, ma di poter lavorare nella natura, nella purezza. Non andava in televisione, ma si impegnava sui diritti umani. Non accettava il razzismo, ma si concedeva alla terra e alla gente che la amava. Aveva progetti da condurre, amore da riversare, sfide da affrontare. È caduta sotto i colpi di un bruto che dopo averla distrutta l’ha stuprata e forse non ha avuto neppure il tempo di vedersi scorrere davanti la sua vita difficile, tragica, esaltante, riscattata fino a quel momento.

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