American Beauty, stasera in tv il ritratto da Oscar di ipocrisie borghesi con Kevin Spacey


Impossibile, guardando American Beauty, non pensare al destino di Kevin Spacey, travolto da accuse pesantissime che ne hanno troncato in via probabilmente definitiva la carriera. La prima, quella del 2017 di Anthony Rapp, che sostenne di essere stato molestato dall’attore nel 1986, quando aveva soltanto 14 anni. Spacey venne estromesso da House Of Cards, fu sospesa la distribuzione del film su Gore Vidal già pronto prodotto da Netflix, e venne cancellato – caso piuttosto inedito – il suo ruolo da coprotagonista in Tutti I Soldi Del Mondo di Ridley Scott. Con il film, prossimo all’uscita – e che aveva puntato molto per la promozione proprio sulla partecipazione di Spacey –, che fu bloccato per consentire a un altro interprete, Christopher Plummer, di rigirare tutte le sequenze in cui era presente.

Una damnatio memoriae ormai quella di Kevin Spacey. Anche perché, dopo la prima, numerose altre accuse sono giunte, la più recente nel settembre del 2020, ancora una volta da Rapp e da un’altra persona rimasta anonima. E sebbene fino a oggi ci siano state diverse archiviazioni e nessuna condanna, è da più di tre anni che Spacey non lavora più, le uniche uscite pubbliche limitate a tre video con cadenza annuale di auguri natalizi sul suo canale YouTube (in cui fa il verso al suo personaggio di Frank Underwood) e un’apparizione a Roma a Palazzo Massimo per recitare una poesia di Gabriele Tinti.

Torniamo però indietro al 2000. Kevin Spacey è all’apice della sua carriera. American Beauty, uscito l’anno prima, una produzione a piccolo budget (15 milioni) della Dreamworks di Steven Spielberg diretta da un esordiente che farà carriera, Sam Mendes, si rivela a sorpresa un successo incredibile, oltre 350 milioni di dollari al botteghino e una messe incalcolabile di premi, coronata da 5 Oscar. Film, regia, sceneggiatura originale, fotografia e, naturalmente, il miglior attore Kevin Spacey, che bissa la statuetta vinta nel 1996 per I Soliti Sospetti, allora come non protagonista.

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Spacey è Lester Burnham, l’americano qualunque della provincia americana qualunque, dove si consumano vite non esattamente felici quanto vorrebbero mostrare di essere. Giornalista ben poco entusiasta del suo lavoro è incastrato in un matrimonio senza più passione con l’agente immobiliare Carolyn (Annette Bening), e una figlia adolescente, Jane, (Tora Birch) con la quale non c’è alcun dialogo.

Quando Lester conosce la compagna di scuola della figlia, Angela (Mena Suvari) resta abbagliato. Qualcosa scatta dentro di lui. Fantastica di vasche piene di maliziosi petali di rosa in cui la ragazzina fa il bagno (l’immagine-icona con cui il film è ricordato), si mette a fare esercizio fisico, abbandona il lavoro per un altro impiego che risponda al suo bisogno di “un posto con la minor quantità di responsabilità possibile”. Nel frattempo la moglie inizia una tresca col collega Buddy (Peter Gallagher), mentre Jane s’innamora di Rick (Wes Bentley), un ragazzo dalle abitudini inquietanti (filma continuamente ogni cosa con la videocamera), figlio del nuovo vicino di casa (Chris Cooper), colonnello omofobo, collezionista di cimeli nazisti.

Il meccanismo narrativo di American Beauty è costruito in modo da accumulare la pressione fino a giungere al punto di rottura dell’inevitabile tragedia. Nessuna sorpresa però per lo spettatore, che viene messo a parte di (quasi) tutto sin dall’inizio. Prima con un video di Jane ripresa dal fidanzato che si lamenta del padre smidollato e del fatto che gli piaccia Angela, con Rick che le chiede se vuole che lo uccida. Poi con la voice over di Lester che, mentre la camera plana dall’alto sul suo mondo da incubo di villette a schiera con giardino tutte uguali, annuncia che nel giro di un anno sarà bello che morto.

American Beauty
Le inquadrature controllate e “chirurgiche” del film di Sam Mendes

Per scrivere American Beauty lo sceneggiatore Alan Ball (Six Feet Under, True Blood, Here and Now) disse d’essersi ispirato alla storia di Amy Fisher, ribattezzata dai giornali americani la “Lolita di Long Island”, che s’innamoro d’un uomo più vecchio di lei e ne uccise la moglie. Nel film la vicenda prende una piega diversa: ma quel che importa è che l’espediente della rivelazione posta all’inizio (sebbene non sappiamo chi ucciderà il morto parlante Lester, e perché), spinge Sam Mendes, proveniente dalla regia teatrale, a raccontare la storia attraverso inquadrature e un montaggio privi di concitazione, con una tensione che è tutta nello scavo a lenta combustione che toglie la buccia a un mondo apparentemente ordinato, sino a giungere all’inevitabile punto di rottura finale.

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American Beauty vuole essere una messa a nudo delle ipocrisie della classe media statunitense, vittima del mito angosciante dell’arricchimento (Carolyn si aiuta con audio motivazionali che la spingono a dare sempre di più), dove gli unici perfettamente adattati sono persone come il “re dei venditori” Buddy, la cui filosofia di vita è che “per avere successo bisogna proiettare costantemente un’immagine di successo”. Ma è un mondo che, a vederlo attentamente, mostra tutte le sue crepe: crisi di mezza età (Lester), l’incubo dell’impopolarità (Angela), il machismo come copertura delle proprie fragilità (il colonnello).

Il limite di American Beauty, nonostante l’efficacia del racconto, è che l’operazione chirurgica segue un copione prevedibile. Non è solo il delitto a essere preannunciato. I personaggi sin dall’istante in cui appaiono sono scolpiti nelle loro caratteristiche essenziali, senza ambiguità possibili. La prima volta che lo vediamo, Lester si sveglia dicendo di “essere già morto”, poi si masturba sotto la doccia – “il momento migliore della mia giornata”, aggiunge –, in un’insistita sottolineatura dello squallore della sua esistenza. Lo stesso vale per Carolyn che, tailleur d’ordinanza e volitività di facciata, mostra istantaneamente la sua natura di nevrotica insoddisfatta. Le prime parole del colonnello, che reagisce con ribrezzo alla coppia omosessuale che si trova come vicini di casa, sono “questo paese sta andando direttamente all’inferno”. E sua moglie (Allison Janey), lungi dall’essere semplicemente infelice, versa in uno stato catatonico quasi caricaturale.

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Ogni personaggio indossa non tanto una maschera, quanto un’etichetta, che ne esplicita la funzione che riveste nel racconto. In questo senso il dispositivo narrativo funziona e coinvolge lo spettatore non per la sua forza di novità e verità, ma perché conferma una serie di luoghi comuni di cui come spettatori eravamo già a conoscenza, ossia che la vita è difficile, il matrimonio è la tomba dell’amore, la mezza età è tremenda. Solo che poi, in uno spericolato ribaltamento, il film ricava dalla vicenda una morale che rinvia proprio alla “bellezza” del titolo. Parola che non è usata in senso ironico, né si riferisce al fascino acerbo e sconvolgente della giovane Angela. E che invece riguarda altro, il gusto delle piccole cose, il miracolo dell’esistenza in quanto tale. Un finale consolatorio appiccicato alla bell’e meglio, che suona più insincero della realtà di cui American Beauty vorrebbe denunciare le ipocrisie.

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