Con la crisi del gas russo stiamo assistendo a un inquietante ritorno del carbone

Con la crisi del gas russo stiamo assistendo a un inquietante ritorno del carbone

A quattro mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il carbone è ufficialmente tornato in cima alle strategie energetiche di diversi Paesi europei. «Dobbiamo usare questa crisi per andare avanti e non per tornare ai combustibili fossili», ha detto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, in un’intervista al Financial Times in cui ha chiesto ai governi di proseguire con «ingenti investimenti nelle energie rinnovabili». In queste giornate di panico e incertezza, però, gli Stati membri dell’Unione europea si stanno muovendo a proprio piacimento, mettendo a repentaglio gli esiti di una transizione energetica costantemente minacciata dagli effetti pervasivi della guerra in Ucraina.

Le Nazioni Ue acquistano circa il 45% del loro carbone dalla Russia. Fino a quando non scatterà – ad agosto – il divieto imposto dall’Ue alla Russia di acquistare, importare o trasferire carbone e altri combustibili fossili (solidi) all’interno dei 27 Stati membri, è probabile che gli affari con Mosca cresceranno. Nel marzo 2022, i Paesi dell’Unione europea hanno acquistato 7,1 milioni di tonnellate di carbone termico (quasi la metà dalla Russia): un aumento su base annua del 40,5% 

Il ministro dell’Economia tedesco (dei Verdi) riapre le centrali a carbone
Il caso più eclatante riguarda la Germania, non a caso la Nazione più colpita dai tagli di Gazprom (-60% di gas giornaliero la scorsa settimana). Berlino, entro il 2030, punta ad abbandonare totalmente le fonti fossili, ma il ministro dell’Economia e della Protezione del clima tedesco, Robert Habeck, ha annunciato che fino al 2024 il Paese sfrutterà le centrali a carbone (alcune delle quali precedentemente dismesse) per produrre 10 gigawatt di potenza aggiuntiva. 

La Germania era già uno degli Stati europei più dipendenti dal carbone: stando ai dati forniti dall’Ufficio federale di statistica, nel terzo trimestre del 2021 il 31,9% del mix energetico tedesco era riconducibile a questa fonte fossile. Un aumento allarmante rispetto al 26,4% del terzo trimestre del 2020 e del 27,1% della prima metà del 2021. «È una decisione amara, ma in questa situazione è necessario ridurre il consumo di gas», spiega Habeck, che – è doveroso ricordarlo – ricopre anche la carica di presidente del partito ambientalista tedesco Alleanza 90/I Verdi. 

La decisione della Germania sta innescando, da una parte, l’incredulità e lo sgomento di alcuni gruppi ambientalisti, e dall’altra i «ve l’avevamo detto» dei sostenitori dell’energia nucleare. Berlino sta procedendo spedita verso le sue politiche di smantellamento delle centrali nucleari, cominciate nel 2011 in seguito al disastro di Fukushima. Entro la fine dell’anno, verrà premuto l’interruttore “off” degli ultimi tre impianti (Emsland, Isar 2 e Neckarwestheim 2) attualmente in funzione. Se la Germania avesse avuto dalla sua parte l’energia atomica, ora non si sarebbe aggrappata al carbone: è questa la tesi di chi difende le potenzialità, la sicurezza e la sostenibilità del nucleare. 

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«La politica energetica tedesca sta raggiungendo l’apice dell’assurdità. Riaprirà le centrali a carbone mentre chiuderà quelle nucleari», scrive su Twitter Gérard Araud, ex ambasciatore francese alle Nazioni Unite. Al momento la Germania – che non ha rigassificatori ed è uno degli Stati europei più dipendenti dal gas russo – non ha intenzione di fare passi indietro sul nucleare. Secondo Berlino, il piano dei prossimi due anni non farà slittare l’uscita dal carbone entro il 2030. 

Paesi Bassi, Austria, Grecia, Polonia
Le fonti fossili sono tornate in auge anche nei Paesi Bassi, che stanno adottando provvedimenti in contraddizione rispetto al loro ambizioso piano di decarbonizzazione. «Le centrali elettriche a carbone potranno di nuovo funzionare a piena capacità, invece che al massimo al 35%», ha annunciato Rob Jetten, il ministro per il Clima e l’Energia in carica dal gennaio 2022. 

Il governo di Rutte, per affrontare i tagli del gas russo, revocherà «con effetto immediato» tutte le restrizioni alla produzione termoelettrica a carbone per il 2022-2024, promettendo però misure di compensazione (ancora poco chiare) per ridurre l’incremento di anidride carbonica (Co2) dovuto al provvedimento d’emergenza. I Paesi Bassi si trovano al momento in uno stato di pre-allarme: «Ogni metro cubo di gas conta», spiega il ministro Jetten.

Passando all’Austria, riapriranno dopo due anni i cancelli della centrale a carbone di Mellach, piccola frazione del Comune di Fernitz-Mellach. «Stiamo aggiornando questa centrale per farla funzionare di nuovo a carbone. In caso di emergenza, questa centrale potrà essere utilizzata di nuovo. Al momento è in corso la conversione», afferma Leonore Gewessler, ministra federale per l’Ambiente, l’Energia, la Mobilità e l’Innovazione. 

Quella di Mellach era l’ultima centrale a carbone in Austria, che a fine marzo 2021 – come la Germania – ha attivato un sistema preventivo di emergenza per prepararsi a un’eventuale carenza di gas. Ora, gli incubi di neanche tre mesi fa si stanno concretizzando, specialmente per via del fatto che l’80% del gas importato dal Paese proviene dalla Russia (e i tagli di Gazprom si stanno già facendo sentire). 

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A rallentare il processo di abbandono al carbone è stata anche la Grecia, che ha deciso di rinviare di cinque anni (dal 2023 al 2028) la chiusura delle centrali alimentate con questo combustibile fossile. Circa il 20% del mix energetico greco deriva dal carbone (il 7% in più rispetto alle prime settimane di guerra in Ucraina), la cui produzione rischia di raddoppiare entro il 2024. Discorso simile, ma ancora più tragico, per la Polonia, che ormai da tempo sta facendo a meno del gas russo. Varsavia, già multata dall’Ue per la miniera di carbone fuorilegge di Turow, avrebbe intenzione di non mantenere le promesse sul proprio phase out dal carbone nel 2049 (obiettivo già poco ambizioso), mantenendo questo combustibile nel mix elettrico anche dopo il 2050. 

I piani del governo Draghi
A febbraio il presidente del Consiglio, Mario Draghi, aveva detto che «potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato». Nel nostro Paese ci sono sei centrali a carbone, e secondo gli obiettivi del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima dovranno chiudere entro il 2025. Sul Messaggero si legge che «la riapertura a pieno regime degli impianti presenti sul territorio italiano può ridurre la dipendenza dal gas del 50% per tutto il periodo della crisi». 

Secondo il Corriere della Sera, che cita fonti industriali, «tutto sarebbe pronto» per un rientro a regime delle centrali a carbone in Italia. L’Enel, anche alla luce della crisi dell’idroelettrico dovuta alla siccità, avrebbe già comprato il carbone necessario per ripartire. Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica, predica calma, ammettendo però che non potremo rinunciare alle centrali ora operative ancora per un po’: «Non riapriremo le centrali a carbone chiuse, si va a carbone con quelle che ancora sono in operazione per un periodo transitorio che serve a risparmiare mentre sostituiamo il gas russo con il gas nuovo. L’impatto ambientale sarà ampiamente compensato dalla crescita delle rinnovabili: a differenza degli altri Paesi europei, per ora, noi siamo riusciti a mettere in atto una strategia che conserva la road map al 55% di decarbonizzazione (entro il 2030, ndr)». 

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Sulla sua stessa linea c’è Claudio Descalzi, Amministratore delegato di Eni: «Il gas algerino, attraverso i contratti firmati, è più che raddoppiato, e in questo momento dà 64 milioni di cubi attraverso pipeline e 4 milioni attraverso Lng», ha detto in un intervento a Repubblica delle Idee 2022. 

Secondo Descalzi, al momento mancano 30 milioni di metri cubi al giorno di gas russo, ma l’Italia può contare su un’offerta di 200 milioni (superiore rispetto a una domanda di 150-160 milioni di metri cubi): «Non dobbiamo allarmarci per cose che possono accadere tra quattro o cinque mesi; dobbiamo fare in modo oggi che queste cose non accadano. Con l’azione forte che sta guidando il governo Draghi penso si possa superare l’inverno», ha aggiunto.

Intanto, l’Italia – con Eni – ha fatto il suo ingresso nel più grande progetto al mondo sul gas naturale liquefatto (Gnl). Una novità che permetterà di incrementare le esportazioni di Gnl del Qatar da 77 Mtpa a 110 Mtpa. E la Commissione europea sta studiando un sistema per limitare il costo di acquisto (si parla un tetto al prezzo del gas tra gli 80 e 90 euro a megawattora): se ne discuterà al Consiglio di domani, giovedì 23 giugno. 

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