Davvero il covid ci farà tenere lontano i nostri figli?


“E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi nessun vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano” (Boccaccio, Il Decamerone, Cornice).

Francesco Piccolo, in un recente articolo pubblicato su La Repubblica, confessa al lettore un’emozione di cui in parte si vergogna, ma che, proprio per il fatto di confidarla a una vasta platea, sdogana di fronte ai lettori, conferendole una cittadinanza onoraria nei regni del plausibile, del legittimo, dell’exemplum da imitare. Dal suo pulpito cartaceo, annuncia Piccolo: il Covid mi ha insegnato ad aver timore dei miei figli (cosa, sottintende, che dovreste fare anche voi).  E giù una serie di considerazioni intime sul timore che il più piccolo, ritornando a casa, voglia appenderglisi al collo senza essersi lavato con cura le mani (e molti genitori invidierebbero quello slancio affettuoso e gentile, dovendo fare i conti con adolescenti mutrie, che, rientrati, si serrano a doppia mandata nella loro stanza, sulla cui porta campeggia a chiare lettere un cartello -do not disturb-).

Ma nessuna profilassi è sufficiente per l’angosciatissimo scrittore che, qualche passo più in là, arriva a desiderare che la figlia, di stanza come studentessa a Bologna, prenda residenza definitiva nella città turrita pur di non rischiare alcun contatto con l’appestata (!), colpevole di frequentare qualche coetaneo, magari nel cortile dell’università. Poi dice che la cultura eleva. Niente, per Piccolo il virus è in perenne assetto di guerra e ha scelto come via indiscussa di diffusione i suoi figli; ce l’ha con Piccolo, il Corona, e solo per infierire sulla sua tormentatissima psiche, perché, si para il letterato, in realtà il mio, che sembra un sentimento egoico ed egoistico, è l’altra faccia della mia amorevolissima paternità; non voglio che, se muoio, loro possano anche per un istante pensare “è stata colpa nostra”. L’ipocrisia della conclusione è tanto evidente che si commenta da sé. Il padre ha paura per sé, e allo stesso tempo stende la  sua ala protettiva sull’equilibrio psichico dei figli, perché non soffrano, un domani, di insanabili sensi di colpa, e di fatto già li colpevolizza (potenziali untori da proteggere contro sé stessi) e li ama, sì, ma con riserva, paura, esitazione, se così può chiamarsi questo sentimento appannato e boccheggiante. Un Piccolo alibi per una causa modesta: mantenere l’immortalità. Piccolo, cura te stesso: dall’egomania, se non altro.

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E il virus è sì maledetto, ma perché, come scriveva Boccaccio nel 1348, la paura, amplificata, gonfiata, innalzata a sistema di vita, spinge i più pavidi a schifare persino i propri pargoli.  Dove è il padre capace di sacrificio, al cospetto di questo Abramo pronto a sacrificare il figlio sull’altare del dio virus? Ma uno il coraggio non se lo può dare, risponderebbe Don Abbondio dalle pagine di un romanzo che pure parla di contagio e di esempi di amore sublime e infimo terrore. Al che ci viene da rispondere con le parole di Federigo Borromeo: l’amore è coraggio, e se non abbiamo fede nell’amore, né il coraggio, né la vita ci sarà mai data, ma solo questa scarna, sempre più svuotata esistenza.

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E se un intellettuale, uno scrittore, tesse l’elogio dell’isolamento, desacralizza gli affetti pur di non rischiare un virus tanto letale, che al meglio è asintomatico, al peggio è un’influenza e solo nei casi più gravi e infinitesimali, mortale – e, a quanto ci sta svelando la cronaca e la nostra capacità di ragionare, quelli privati delle cure tempestive, per rispettare la vigile attesa raccomandata da linee guida passibili, speriamo, un giorno, del giudizio dei tribunali -, cosa resta per noi, povera gente, privi di un bagaglio di lunghe ruminazioni sui massimi sistemi? Sono queste le nostre guide morali, i nostri lumi nella notte, i nostri profeti? Non ci resta che dire, con Diogene; cerco l’Uomo. Possibilmente non mentalmente bardato come un tecnico di Chernobyl, di Fukushima.

Quindi Piccolo, surrettiziamente, fa l’elogio, col suo articolo, del Covidfobico tipo, sangue del tuo sangue, quello che ti entra in casa che sembra un palombaro, quello dagli occhiali spessi, appannati modello Filini, aria guardinga da topo finlandese. Quello che incede senza rivolgere la parola a nessuno, si siede a distanza di 10 metri, evita con una sterzata da formula uno la madre che gli arranca incontro, puntandogli contro l’amuchina, con la scusa di tutelarla e tutelarsi.  Quello che ignora che il virus si replica anche sui batteri, che indugia sulle superfici, che ricostruire la catena dei contagi non è così facile, e soprattutto che è così in preda al terrore da aver circoscritto il proprio cerchio degli affetti a sé stesso, in un mondo che è diventato improvvisamente davvero troppo piccolo. Piccoli malati sanissimi, anche pieni di soldi, che vivono già all’inferno: loro e chi ci ha a che fare. Tirano avanti fra manie di persecuzione, miraggi, incubi. Si credono molto responsabili e disprezzano tutti. Trattano da estranei anche i figli. Vanno per la maggiore.

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