Day after Fed

Day after Fed

Anche ieri la maledizione del day after FED ha colpito. Come ho anticipato nel commento di ieri mattina, da qualche mese, praticamente da quando è avvenuta la svolta monetaria della Federal Reserve in senso restrittivo, il comportamento dei mercati nei confronti delle riunioni della FED passa dalla paura delle sedute che precedono la riunione del FOMC al sollievo momentaneo, subito dopo la conferenza Stampa di Powell, per poi mostrare un deciso ritorno di paura il giorno seguente.

Anche questa volta lo schema si è ripetuto.

Del resto, ieri ho commentato le previsioni del FOMC sull’economia e sui tassi di interesse futuri senza nascondere una certa perplessità, a causa delle contraddizioni piuttosto evidenti, che inducono a scarsa fiducia sulla capacità della FED di pilotare l’economia USA fuori dal campo minato in cui si trova.

Prevedere una politica monetaria restrittiva, con tassi ufficiali ben sopra il 3%, per ben 3 anni, una inflazione alta quest’anno, ma in rapido rientro verso il target del 2% il prossimo anno e nel 2024, con tassi di crescita del PIL USA in rallentamento ma ben lontani dalla recessione, appare un esercizio macroeconomico piuttosto strampalato. Oggi cerco di spiegarne meglio le motivazioni.

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In sintesi, se l’inflazione scenderà in fretta, perché occorre mantenere i tassi elevati per tre anni? Per paura che rialzi la testa? Significherebbe fare il medesimo errore, ma di segno opposto, che è stato fatto lo scorso anno. Allora non si riconobbe la lievitazione dei prezzi, considerandola transitoria. Questa volta non si riconoscerebbe il loro lo sgonfiamento, continuando ad infliggere condizioni restrittive all’economia anche quando non sarebbe più necessario. Se l’inflazione rallenterà significa che la domanda globale sarà stata ridimensionata dalla stretta monetaria. Allora perché continuare a combattere la domanda per 3 anni? Il risultato sarebbe mandare l’economia in recessione.

Una politica monetaria restrittiva prolungata, dopo un decennio di tassi a zero e la proliferazione di una caterva di imprese zombie (quelle che non fanno utili e sono fortemente indebitate, al punto da sopravvivere solo se i tassi che pagano sui loro debiti sono prossimi a zero) potrebbe scatenare un’ondata di fallimenti in grado di provocare una crisi finanziaria forse peggiore di quella del 2008.

Il mercato ieri deve aver fatto ragionamenti simili.

Allora ha dimenticato il sollievo della parte finale della seduta di mercoledì, tornando prepotentemente sui suoi passi, ed anche oltre. In Europa l’azionario è stato ricacciato violentemente indietro. Eurostoxx50, che lo sintetizza, ha perso quasi -3% e si è avvicinato a meno di 50 punti dal minimo del 7 marzo di 3.387.

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Anche peggio è andata a Wall Street: SP500 (-3,25%) ha brutalmente abbattuto il minimo della correzione senza fine ed è sceso fino a 3.640, prima di tentare un rimbalzino.

La tecnologia è stata ancora pesantemente liquidata, con Nasdaq100 (-4,02%) atterrato quasi a quota 11.000 punti. Il peggiore è stato il Russell2000 delle small cap, atterrito dalle prospettive di recessione, con un tonfo del -4,98%.

L’unica nota lievemente positiva è stata la tenuta dell’obbligazionario europeo, dove i rendimenti e gli spread hanno continuato la discesa del giorno prima, innescata dall’annuncio dello scudo anti-spread della BCE. È vero che al momento le divisioni tra falchi e colombe non consentono di ipotizzare come sarà strutturato, ma il mercato è sembrato fidarsi che una soluzione si trovi.

La seduta odierna è di difficile previsione. Peraltro, avremo anche il cosiddetto “giorno delle streghe”, dato che oggi scadono opzioni e futures su azioni ed indici.

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I mercati ci hanno mostrato una chiara incapacità di trovare motivazioni non effimere per invertire la direzione di marcia verso sud. Perciò è bene attendere che si formino divergenze e modelli di inversione. 

La pazienza e la cautela saranno anche oggi ottime compagne di viaggio.

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