Democrazia Futura. La scomparsa del cinema italiano e la diaspora dei film


Democrazia futura propone un secondo confronto a più voci, dedicato al tema Covid-19 e industria dell’immaginario: quali conseguenze. In apertura di nuovo Guido Barlozzetti, ma ora nella sua veste di critico ed esperto cinematografico, dedica un vero e proprio mini saggio a quella che intitola “La scomparsa del cinema e la diaspora dei film” durante la pandemia. “Il Cinema non c’è più” – chiarisce subito Barlozzetti. Non esiste più né come “ciclo dalla produzione alla distribuzione sino al consumo in sala”, come lo era stato dagli anni Trenta sino agli anni Sessanta, né come specifico che ne faceva risaltare la differenza nel tempo della televisione, come grande schermo rispetto al piccolo schermo. “il Cinema ha mantenuto a lungo l’egemonia nel sistema fino a quando ha dovuto ricontrattarla con un nuovo competitor, la televisione”. Oggi invece in un “sistema sempre più globalizzato e integrato”, “grandi player a dimensione internazionale, lavorano su tutta la filiera dei contenuti, producono film e fiction per pubblici di tutto il mondo. Diversificano, pianificano e distribuiscono secondo un timing che può variamente articolarsi dalle sale, alla televisione e, novità sostanziale, al video on demand, con milioni e milioni di abbonati distribuiti a tutte le latitudini. […] Oggi la forza propulsiva viene dalla serialità”.

Guido Barlozzetti

Si può parlare e fino a che punto di qualcosa che sta accadendo? Si può fermare in un giudizio, quanto meno provvisorio, il divenire di un oggetto che è un campo complesso di relazioni, variamente combinate e interdipendenti, che chiamiamo, abbiamo chiamato, Cinema, a sua volta preso in un contesto mediatico, sociale, politico, più ampio con cui interagisce? E’ una preoccupazione di metodo che, riguardando l’oggetto chiama in causa, anche il modo in cui se ne parla, il discorso che lo dice, vecchia storia da principio di indeterminazione ma resa ancor più attuale dal fatto che il Cinema – lo scrivo con la maiuscola per sottolineare la densità riconoscibile di un territorio – era già stato preso – e da tempo – in una deriva del suo sistema e che su questa il Covid-19 è venuto a sovrapporsi con alcune conseguenze che, ancorché divenienti e nella loro provvisorietà, si lasciano riconoscere e descrivere. Dunque, una prima risposta alla domanda iniziale, che consenta di fare un passo e cominciare a ragionare non dell’esistente ma appunto del diveniente, è mettere insieme e far reagire l’uno sull’altro i piani diversi che riguardano le teorie, i concetti che si usano, i dati oggettivi delle ricerche, l’esperienza che introduce nel ragionamento l’elemento della soggettività e cioè il modo in cui partecipiamo dell’oggetto in questione e lo inseriamo nella nostra quotidianità.

Sarà persino ovvio dirlo, il Cinema non c’è più. C’era e costituiva una comoda e rassicurante semplificazione, un po’ come tutte le cose che c’erano, tanto per fare un esempio il sistema politico che poteva fibrillare quanto voleva, anzi poteva farlo proprio perché stava tutto rinchiuso in un perimetro/mappa indiscutibile al punto da diventare nella percezione naturale. Ci ricordiamo della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista e del Partito Socialista? Stavano lì, definivano un sistema, consentivano un dibattito, una partecipazione, un rapporto tra la società e la politica. Pensieri e azioni oscillanti tra empiria e ideologia, tutti riconducibili all’interno di un quadro dalle relazioni variabile ma nella sua configurazione immutabile (fino a quando le variazioni non sono state più contenibili in quel quadro). E lo stesso si potrebbe fare per il sistema delle relazioni internazionali, irrigidito e fissato nella contrapposizione dei blocchi dell’Est e dell’Ovest, o per altri oggetti, per il lavoro, per la letteratura e il libro, per i media con i suoi oggetti, la televisione, il giornale… il cinema. Tutto questo solo per dire che il Cinema, per quanto mutante, è stato a lungo un oggetto solido, da qualunque punto di vista lo si considerasse.

Il cinema nell’età classica come ciclo dalla produzione alla distribuzione sino al consumo in sala

Nell’età classica che possiamo circoscrivere per il cinema sonoro dagli anni Trenta ai Sessanta del Novecento (1) il Cinema era anzitutto un ciclo che andava dalla produzione alla distribuzione sino al consumo. Un luogo dove si facevano i film, al punto da identificarlo con delle vere e proprie fabbriche, da Hollywood a Cinecittà. E queste fabbriche producevano in un’alchimia per cui dalla materialità di un set si generava qualcosa che spostava nell’immaginario, certo con livelli di organizzazione  assai diversi, dalla fabbrica tayloristica all’americana, lo studio system, a quella a metà strada tra piccola/media impresa e bottega artigianale all’italiana. Il Cinema aveva una centralità che gli consentiva di interagire con gli ambiti socio-culturali più diversi, dall’informazione alla letteratura, dal teatro all’arte.

Ognuno aveva il suo posto, il produttore produceva, lo scrittore scriveva, il regista dirigeva, i distributori distribuivano, le sale proiettavano e gli spettatori entravano si sedevano e guardavano. Il Cinema era all’incrocio di pratiche e saperi variamente dislocati e tuttavia costituiva una cornice di riferimento, un campo di attività e un luogo privilegiato dell’immaginario individuale e collettivo. Anche per chi intendeva trasgredire e sovvertire le leggi di un sistema industriale e di gestione complessiva del senso. Anzi, si può dire che il sistema stesso fosse costruito per ricontrattare continuamente il perimetro dei rapporti e del discorso, attestato su un bordo/confine da aprire e chiudere, e attraverso cui accogliere, respingere o espellere. Tutta la nomenklatura con cui abbiamo cercato di definire le posizioni nel e rispetto al sistema – regista, autore, artigiano, indipendente… – non raccontava che questa condizione, per cui il gioco della soggezione/libertà era l’altra faccia della dialettica ripetizione/innovazione con cui il sistema continuava a rigenerarsi.

La differenza del cinema nel tempo della televisione

In generale, le teorie hanno affrontato questo apparato complesso con approcci diversi, da quello economico-produttivo a quello sociologico-culturale fino alla dimensione psicoanalitica, angolazioni diverse che riguardavano l’organizzazione industriale, le risorse, la divisione del lavoro, le competenze e il lavoro, l’analisi del mercato, le modalità e i contenuti della rappresentazione nel ventaglio dei loro riflessi, il ruolo e la competenza dello spettatore. La semiotica, specie nel periodo di una vocazione totalizzante, anni Sessanta/Settanta, ha inseguito a lungo la definizione di un modello complessivo che tenesse insieme tutti gli aspetti, a cominciare da Christian Metz, in un riferimento testuale unitario e appunto tale da poter essere descritto nell’insieme delle sue articolazioni e nel suo sistema linguistico (2). Si studiava il Cinema con l’ambizione di trovare un sistema di corrispondenze fra tutti i livelli, gli studios e lo star-system, i quattro fratelli Warner, Gary Cooper e Greta Garbo, l’apparato e, appunto, la trasgressione che ne costituiva il necessario contraltare, le catene delle sale, il piacere di entrarvi e abbandonarsi alla fascinazione di un raggio luminoso che accende di immagini un grande schermo. E tutto questo era possibile perché il Cinema c’era e diventava teoria proprio perché la televisione ne faceva risaltare la differenza.

Anche quando è arrivata la Televisione, nonostante l’erosione graduale del pubblico e la pervasività/continuità del mezzo nella quotidianità di un consumo domestico, il Cinema ha continuato ad essere percepito come tale, se non altro per differenza, il Grande Schermo rispetto al piccolo schermo, il fascino della sala buia di contro all’informalità familiare del salotto di casa… Il Cinema in questo manifestava tutta la sua appartenenza emblematica alla modernità espansiva: luogo dedicato e chiuso, sì, ma individuale e collettivo al tempo stesso, nel quadro di una dimensione urbana/metropolitana, caratterizzata da apertura, mobilità e da una corrispondenza tra la condizione di massa – e di massa non a caso si chiamavano anche i mezzi della comunicazione – e la specificità/delimitazione di spazi dove svolgere determinate funzioni della quotidianità feriale e festiva: i grandi magazzini, lo stadio, l’edicola, il caffè, la sala del cinema…

La riconversione del cinema nell’industria della fiction in America, la non-invadenza della televisione pubblica in Italia e poi il sistema misto

Come si diceva una volta, nel linguaggio simbolico dell’Ideologia, che era un modo per imporre alla diversità del reale un principio di ordine simbolico, il Cinema ha mantenuto a lungo l’egemonia nel sistema fino a quando ha dovuto ricontrattarla con un nuovo competitor, la televisione. Caratteristiche del tutto diverse per l’allora ultimo arrivato: (elettro)domestico, al punto da diventare il nuovo focolare attorno a cui radunare tutta la famiglia, fruibile a tempo pieno e dunque non circoscritto alla singolarità di uno spettacolo da consumare in un luogo deputato, basata su un palinsesto con rigidi appuntamenti orari e un’articolata successione di programmi dei generi più diversi, l’informazione e il varietà, il quiz e il talk-show, l’intrattenimento e quella che oggi chiamiamo “fiction”. Già, perché, fin dall’inizio la televisione si preoccupa di raccontare storie. Lo fa a suo modo, guardando alla realtà o ai classici della letteratura, secondo un principio che non inventa ma che il medium porta a uno straordinario sviluppo di massa. C’erano stati i feuilleton, i romanzi a puntate ottocenteschi, costruiti da vere e proprie fabbriche di scrittori per un crescente pubblico di lettori, pubblicati nella serialità dei giornali, e poi  i fumetti, i fotoromanzi …

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Il cinema aveva provato a suo modo, ad esempio con le comiche o con i B-movies che replicavano le gesta di un personaggio da un episodio all’altro, ma è la tv che esalta la dimensione seriale del racconto con prodotti costruiti su più puntate che si rilanciano, agganciando gli spettatori, dall’una all’altra. Un cambiamento che comporta un nuovo modo di produzione, a tutti i livelli del ciclo, e un rapporto con lo spettatore fondato sull’attesa e sul rimando, e su un immaginario di vicinato che non ha l’eccezionalità di quello della sala buia ma è pronto ad accompagnare la quotidianità in casa e all’orario annunciato. In America questa storia inizia con la cosiddetta Golden Age, fine Quaranta/fine Cinquanta, e i suoi generi canonici, western, poliziesco, sitcom, soap, science-fiction…, prodotti e realizzati dalle Majors di Hollywood e con i teleplays in diretta, perché la televisione si affaccia con grandi ambizioni e la vecchia fabbrica del cinema capisce che può diventare un affare produrre le storie che le servono. Il dispositivo Cinema si apre e si riconverte in funzione della concorrenza e delle necessità del palinsesto.

In Italia, la televisione – che è il servizio pubblico in regime di monopolio – si presenta dal 1954 con i romanzi sceneggiati secondo una linea editoriale e produttiva tutta interna.

Il cinema ha il mercato delle sale, il suo campo è rigorosamente separato da quello televisivo (l’offerta prevede un solo film, il lunedì, nel giorno in cui le sale sono chiuse, poi ne arriverà un altro sul Secondo Programma ma di qualità autorale e sperimentale), i tentativi di produrre per il nuovo mezzo non decollano. Una distinzione che si ritrova anche sul piano dell’immaginario, le trasgressioni (sorvegliate dalla censura) della commedia all’italiana e del cinema d’autore, da un lato, la tv pedagogica, dall’altra. Questa situazione nel tempo, in particolare con il passaggio dal monopolio pubblico al cosiddetto sistema misto che in realtà assumeva i tratti di un duopolio Rai/Fininvest, si va via via a complicare e a riorganizzare. Con esiti solo in apparenza paradossali. La televisione viene accusata di portare alla morte il cinema, eroso nel pubblico, collocato nei palinsesti e spezzettato per far posto alla pubblicità. E intanto, però, si impadronisce delle libraries delle case di produzione (che le vendono … ), e diventa determinante per la stessa produzione del cinema destinato alle sale (che poi finirà nel prime time delle reti generaliste).

I big player, l’evoluzione della serialità, la nuova qualità e la rivoluzione del consumo

Arriviamo così – saltando alcuni passaggi – a un passo prima dell’attualità, in cui alcune linee di tendenza sono largamente confermate con novità imprevedibili. Anzitutto sul piano del sistema sempre più globalizzato e integrato. Grandi player a dimensione internazionale, lavorano su tutta la filiera dei contenuti, producono film e fiction per pubblici di tutto il mondo. Diversificano, pianificano e distribuiscono secondo un timing che può variamente articolarsi dalle sale, alla televisione e, novità sostanziale, al video on demand, con milioni e milioni di abbonati distribuiti a tutte le latitudini.

Non esistono più le case di produzione a monocultura industriale cinematografica, se portano ancora nomi che furono mitici, grandi conglomerate le hanno assorbite e debitamente riconvertite al proprio interno. E un film è diventato un concept trasversale, tale da essere sfruttato su un arco di occorrenze che si incastrano con i più diversi comportamenti della quotidianità, dall’editoria all’abbigliamento, dalla nuova industria dei giochi elettronici ai gadget e ai giocattoli. Per non parlare del nuovo prolungamento sui social network, terminale per un verso, accompagnamento e miniera di un fandom che non riguarda solo i film, ma anche e soprattutto un’ondata inesauribile di prodotti di intrattenimento non solo nel campo dell’audiovisivo, che in questo perimetro in espansione trova un’alimentazione potente nelle serie della fiction. Un fenomeno che fa cadere barriere e sposta la prospettiva tradizionale del marketing nell’orizzonte integrato e plurale degli ecosistemi narrativi, ben oltre il semplice consumo di un film e, ancor più, proprio per la sua dilatazione nel tempo, di una serie (3).

E qui arriviamo a due cambiamenti fondamentali che riguardano, da un lato, il piano dei contenuti dell’industria integrata dell’audiovisivo, dall’altro, le modalità del consumo. Livelli che sarebbe sbagliato, come d’altronde tutti gli ambiti delle considerazioni che abbiamo svolto, considerare separati e indipendenti l’uno dall’altro. Sono aspetti diversi colti da angolazioni diverse dello stesso processo.

Sul primo versante, e all’interno di un processo evolutivo che fa parte intrinseca del campo della serialità, sempre sospeso tra ripetizione e innovazione, con una svolta che si annuncia all’inizio dei Novanta, si sviluppa una seconda Golden Age, con l’apripista Twin Peaks firmato dalla contaminazione fra un autore di cinema come David Lynch e un producer televisivo, Nick Frost. E poi E.R., X-Files, I Soprano, West Wing, Buffy … e ancora Dr. House, Mad Men, Desperate Housewives, 24, Dexter, The Walking Dead, Breaking Bad, Lost, Homeland. Una linea che via si complica e si arricchisce, al punto da far parlare di una terza fase che sarebbe attualmente in corso. House of Cards, Il trono di spade, Cernobyl, True Detective, Babylon Berlin, Unhortodox, The Queen’s Gambit (La regina degli scacchi), … Cresce la domanda e non solo di quantità, ma anche e soprattutto di qualità, grazie anche all’articolazione di un sistema di offerta che ai tradizionali network ha affiancato i canali via cavo e a pagamento e poi la distribuzione degli over the top che producono e vendono al dettaglio. E’ così che in America si è cominciato a considerare la serialità come un terreno di sperimentazione di linguaggi, di una nuova complessità del racconto e di un’ibridazione sorprendente tra generi che altro non è che l’originalità di un concept.

La concorrenza interna tra i diversi livelli di questa macchina ha fatto da motore a una creatività – la televisione di qualità, esaltata in tanti studi – che non solo è stata paragonata a quella del cinema, ma in cui molti hanno individuato un salto evolutivo capace di generare soluzioni narrative che il cinema – nei contenuti come nel formato – non sarebbe più in grado di raggiungere. Ora, non si tratta certo di fare una classifica, piuttosto è il caso di sottolineare come ormai sia di tutta evidenza l’importanza assunta dalla serialità sotto tutti i rispetti, nei volumi e negli assetti produttivi,

E qui si tocca l’altro punto di svolta. Nuove serie, infatti, ma anche un nuovo modo di consumarle, in conseguenza di un cambiamento che ha segnato una discontinuità radicale con l’introduzione del digitale. La fine dell’era della scarsità analogica ha comportato infatti una moltiplicazione dei canali televisivi, ma ha soprattutto innescato un processo di convergenza tecnologica che ha ricondotto a un comune denominatore immagini, suoni e dati, investendo così trasversalmente quello che nell’analogico era verticalmente separato.

Questo mutamento ha riguardato la pellicola del cinema, i codici analogici della trasmissione da punto a massa del broadcasting e ha rivoluzionato il modo in  cui trasmettere i prodotti più diversi a un destinatario. Ha reso cioè possibile il passaggio da una trasmissione eterodiretta a una che mette al centro la selezione che l’utente opera direttamente dall’offerta di un distributore che espone il catalogo e lo vende nella sua potenzialità e insieme nell’attualità delle scelte che via via opera ciascun spettatore. L’alleanza strutturale tra computer e televisione ha infatti reso possibile costruire un’interfaccia funzionale tra l’offerta e la domanda, la prima con una duttilità di contenuti, un’articolazione per target, e una qualità tale da motivare target diversi all’abbonamento e/o all’acquisto del singolo prodotto, la seconda messa in condizione di poter scegliere a piacimento dal catalogo secondo i propri gusti e potendo decidere in totale autonomia il tempo del consumo. Naturalmente, pagando.

La forza propulsiva della serialità

In questa nuova cornice, le serie non solo hanno consolidato il rapporto con il pubblico, ma sono diventate uno, se non il principale, contenuto-premium di un gestore a ciclo completo della qualità, quantità e tempo del consumo. E nell’offerta ritroviamo anche i film. Attenzione, non il cinema – quel sistema integrato dallo studio alla sala buia che prima abbiamo ricordato – ma i film e cioè prodotti in prima istanza destinati alla sala buia e a seguire alle piattaforme pay e poi, ma proprio poi, al broadcasting generalista o tematico.

Ecco cos’era il cinema e soprattutto dove stava prima del Covid 19. Un mercato in graduale erosione basato sullo sfruttamento di una serie di finestre, la prima delle quali consisteva ancora nella modalità/luogo di consumo theatrical, anteprima di un viaggio che da lì usciva rapidamente per andare sulle nuove piattaforme e poi sullo schermo di quello che era stato considerato il suo mortale competitor.

Da tempo in tanti non andavano (più) al cinema. Vedevano i film in casa, ovvero in un modo più comodo, più economico, rispetto semmai a un consumo festivo, da piccolo evento che s’intrometteva nella continuità quotidiana e che riguardava sempre più alcune fasce del pubblico: i giovani/medio adulti e i bambini (in quel caso con i genitori ad accompagnarli). I primi ancora interessati e sedotti dalla modalità-cinema oltre che dal film da vedere, magari all’interno di un piccolo palinsesto di una serata, gli altri sensibili all’impressione audiovisiva di una sala buia e di un grande schermo.

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Entrambi i livelli, però, minacciati da una concorrenza oggettiva. Il primo dalla disponibilità in casa di film – in qualche caso addirittura prime visioni prodotte direttamente da un player della distribuzione audiovisiva – e soprattutto di serie largamente competitive, con il plus del trascinamento seriale che, sempre più, ha favorito un consumo variamente compulsivo, fino a un binge watching una maratona visiva capace di vedere no-stop una serie in tutta la sua articolazione in episodi. I secondi, bambini e ragazzi, non nativi dal punto di vista cinematografico e anzi abituati a mettersi davanti uno schermo domestico già dal tempo dell’home-video e poi dei dvd, sempre più attratti dalla possibilità dell’interazione consentita dal digitale e quindi dalla possibilità di fare del video il terminale di una play-station e di tutte le simulazioni possibili, nei generi più diversi, da una partita di calcio a una corsa in Formula 1, al confronto-scontro nei più diversi contesti di una narrazione non solo da vedere ma da vivere in prima persona e quindi da orientare con il proprio personale coinvolgimento verso un certo esito, replicabile tutte le volte che si voglia.

La trasformazione dei consumi in Italia nel 2019 sulla soglia del Covid-19

Solo alcuni dati per restare nel perimetro nazionale. Nel 2019 il valore della produzione di fiction è arrivato a 480 milioni, la stima per il cinema oscilla tra 370/400, dunque il sorpasso è largamente avvenuto. Il Video on demand  ha raggiunto i 70 milioni (+40 percento rispetto all’anno precedente) (4).

Ancora nel 2019, la spesa per fruire di contenuti digitali ha sfiorato 1,8 miliardi di euro con un incremento del 20 percento sul 2018. In particolare, la spesa per video-entertainment ha raggiunto i 388 milioni, l’84 percento generata da abbonamenti (5).

E il cinema delle sale? Secondo i dati Anica, 635 milioni di incassi nel 2019 (+14.3 sul 2018) e 97.6 milioni di spettatori (+13.5 percento) (6). Un dato che indica un settore sostanzialmente fermo negli spettatori e in regressione sugli incassi (nel 2010 rispettivamente 734 e 109 milioni).

Nel complesso del mercato audiovisivo italiano il cinema rappresenta il 6,35 percento a fronte del dato macro-aggregato della tv, l’81 percento (7).

Il paradosso dello spettatore e la complessità integrata nel nuovo sistema produttivo

Dunque la sala buia era già uno spazio-tempo residuale. Che non vuol dire condannata alla sparizione, diciamo una situazione in graduale decentramento, che può ancora contare – nelle difficoltà – su alcuni plus: la grandezza dello schermo, la concentrazione generata dalla sala buia, la possibilità di vedere insieme, in una dimensione di complicità e di particolare condivisione, sostenuta appunto da una dimensione di evento, di un rito che accade lì e in quel momento, per il quale bisogna decidere di uscire di casa, proprio per evadere dalla familiarità ripetitiva che lo connota. Dunque, abbiamo integrazione e al tempo stesso ridimensionamento nella composizione e nelle abitudini del pubblico – che non sarebbe sbagliato dipingere nella sua double face di Jeckyll e insieme Mr. Hyde del cinema, oggettivo e soggettivo: un pubblico che, per un verso magari afferma di amare il cinema e qualche volta va persino al cinematografo, per altro rimanendo prigioniero nella sua casa-bunker collabora a ridimensionarlo… da casa (o fruendone in mobilità attraverso smartphone, tablet, calcolatori portatili e altri dispositivi).

Una condizione che trova fatali corrispondenze anche ai macro livelli del sistema di produzione/distribuzione, dove gli investimenti sulla fiction hanno superato quelli strettamente cinematografici, con i film che fanno parte ormai di una pianificazione integrata in cui il destino di un prodotto si declina in funzione del miglior sfruttamento possibile su un arco integrato di opzioni di consumo. Un sistema complesso, tutto nell’orizzonte del digitale, in cui tutti gli elementi sono presi in un gioco di interdipendenze, con giocatori che competono fra loro forti di masse critiche di capitali da investire, capacità di muoversi su un mercato globale e con la duttilità per rivolgersi a destinatari a tutte le latitudini. E questo spiega anche l’inedita disponibilità dei top player a investire sull’immaginario locale, ma a una doppia condizione, che sia un local con chances global, tanto più connotato quanto più con l’appeal di valori e sentimenti universali.

I primi, devastanti effetti della pandemia sul sistema delle case

Poi è arrivato il Covid 19. Il primo, evidente effetto è stata la clausura. Obbligata dalle disposizioni dei governi, non dipendente da scelte individuali. Questa chiusura si è accompagnata al divieto o alla limitazione di un comportamento che, senza scomodare Aristotele, fa parte intrinseca della socialità e del vissuto quotidiano, l’incontro, il bisogno di ritrovarsi in luoghi in cui trascorrere del tempo intrattenendosi nello scambio e nella reciprocità – una piazza, un caffè, un bistrot, una pizzeria, un ristorante -o di frequentare luoghi in cui spettacoli che possono andare dalla musica al teatro, dallo sport. al cinema, presuppongono la partecipazione a un’esperienza individuale e collettiva, anzi hanno senso proprio in quanto muovono un pubblico di grandi dimensioni (che naturalmente possono variare in funzione del tipo di spettacolo e del contenitore in cui si svolge) sia sul piano economico, sia per il contesto emotivo che tanta parte ha nel coinvolgimento individuale.

No, quindi, all’assembramento e chiusura dei luoghi deputati a una fruizione superindividuale. La sala cinematografica ha subito un interdetto e il virus ha avuto una conseguenza radicalmente negativa: i cinema sono stati chiusi. Oramai da dieci mesi, salvo qualche timida e peraltro deludente riapertura. Questa chiusura ha colpito al cuore il sistema-cinema basato sulle uscite settimanali dei film che lì trovano la prima naturale destinazione oltre che un livello di remunerazione adeguato all’investimento produttivo, che si tratti degli aspiranti blockbuster che si ripagano – se va bene – con gli incassi worldwide, o delle piccole-medie produzioni, peraltro – come accade da noi – costruite con un mosaico di finanziatori la cui composizione conferma, come accennato, la dislocazione subita dal cinema rispetto alla filiera tradizionale. Basti pensare all’insostituibile salvagente del diritto d’antenna, quindi alla fatale destinazione televisiva, ai contributi delle Film Commission e del Ministero dei Beni Culturali, al polmone decisivo del tax credit, a dimostrazione di un’architettura finanziaria che se fosse lasciata al solo mercato  non avrebbe speranze. E’ chiaro che, visto dal cinema, il Covid-19 ha avuto conseguenze disastrose che minacciano di compromettere la tenuta del sistema dell’esercizio e quindi di rivalersi a monte e a valle di quel passaggio. Detto altrimenti, cosa potrebbe succedere dell’attuale pianificazione produttiva del cinema nel momento in cui si verificasse non dico la sparizione, ma – su una prospettiva temporale di medio periodo – un radicale ridimensionamento del mercato delle sale?

Allargare il punto di vista. Il doppio virus

E ancora, dobbiamo cominciare a pensare a un’irreversibile mutazione antropologica dello spettatore, sempre più domestico e variamente disponibile, a seconda dei target e degli stili del consumo, a mettersi in relazione con un sistema multipiattaforma?

Non è il caso di avventurarsi in previsioni  apodittiche, si può però affrontare la questione allargando il punto di vista. Non guardare cioè nella prospettiva stretta di quello che tradizionalmente abbiamo individuato come sistema cinema, e ragionare invece sul campo complessivo di un sistema integrato dell’audiovisivo e, ancor più dell’intrattenimento (a sua volta in un gioco di scatole che sulla trasversalità del digitale va a interfacciare la rete ai più diversi ambiti della vita e delle attività). E allora non faticheremmo a capire che virus si è aggiunto a virus, che cioè il cinema era già una modalità aggredita dalle linee di tendenza dello sviluppo del mercato dei contenuti e dei comportamenti del consumo. Il virus aveva già ridotto il pubblico delle sale e diminuito il loro numero, con la scelta della tipologia della multisala che si era rivelata in tutta l’ambiguità del ruolo, da un lato modalità stressata per trattenere il pubblico e se possibile intercettarne uno nuovo, dall’altro, imbuto della distribuzione, con grande sofferenza della produzione/distribuzione indipendente. Con il risultato di eleggere la televisione a anello decisivo su tutti e due i versanti e dunque, nella speranza di trovare un punto di sostegno, di alimentare il trend oggettivamente negativo e chiedere salvezza al killer.

Il neo-virus si è sovrapposto e ha accelerato  la gradualità dei trends. Ha rinchiuso in casa, ha cancellato il pubblico delle sale e  ha costretto – o confermato – lo spettatore solo nella dimensione domestica. E quindi televisione generalista e, a seconda delle disponibilità, pay-tv e video on demand. Va sottolineato che, nella costrizione, l’integrazione digitale del sistema si è rivelata un antidoto di grande importanza. Film e serie, nella pandemia, sono diventate un antivirus psicologico, un collante degli equilibri familiari, un succedaneo delle solitudini, svolgendo una tutt’altro che trascurabile funzione omeostatica.

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Un confronto fa capire analogie e differenze con contesti emergenziali diversi. Durante la Seconda Guerra Mondiale la gente usciva e andava al cinema, non si rintanava in casa ma aveva bisogno dell’intimità collettiva della sala buia e dell’evasione nell’immaginario che prometteva. Con la dittatura drammatica del Covid-19 è accaduto il contrario: la gente, le famiglie, gli individui sono stati obbligati a vivere in casa e la via di fuga, l’apertura  nella reclusione è venuta dal mezzo di comunicazione più diffuso, ovviamente nella nuova collocazione che gli è toccata nel sistema della convergenza e dunque nella ristrutturante relazione con internet e con un dispositivo multimediale che ha spalancato le case su flussi e cataloghi immensi di contenuti, sempre più a pagamento.

Per non dire dei tablet e delle consolle delle playstation di tutta la galassia di simulazioni personalizzate e/o interattive in cui si è concentrata la fascia dei teenagers e dei giovani. Potremmo anche darci a improvvisate previsioni che, come spesso capita, finiscono per essere influenzate dalla semplificazione degli schemi e delle facili antitesi, quando invece la realtà ci mette di fronte alla complessità di un divenire, in cui la cesura – questa sì – è intervenuta dal Fuori di un virus.

E un altro rischio da cui dovremmo guardarci è quello di una nostalgia preventiva che faccia prevalere gli strati emotivi della nostra vissuta soggettività sullo sguardo largo che si deve avere sul presente, colto nel suo incastro sempre attuale tra passato e futuro. L’amore per la sala buia e per il Cinema viene da un deposito di esperienze diventate abitudini intrecciate con le oscure attrazioni del desiderio. E’ così, ma non basta se solo vogliamo un poco allargarci rispetto alle predilezioni e a un senso anacronistico del tempo, troppo spesso pronto a consegnarsi a quelle che Zygmunt Bauman chiamava retrotopie (8). L’esercizio che invece dobbiamo fare è di assumere una posizione che sia all’incrocio tra la soggettività a cui non possiamo abdicare, la plurale compresenza che la costituisce e la pluralità delle esperienze, delle informazioni, delle immagini e dei comportamenti con cui interagiamo con il mondo. Un mondo il cui statuto di realtà di sta spostando interagisce con noi.

Congiunturale o strutturale?

Allora, le domande a questo punto sono: il Covid, per semplificare il virus 2, ha semplicemente intensificato un processo già avviato con il virus 1 o, nella discontinuità che rappresenta, ha introdotto qualcosa fino a ieri assolutamente imprevedibile? Quella che si legge come una crisi drammatica, dal punto di vista del cinema, è tale o invece siamo di fronte ai prodromi di un gigantesco processo di riconversione che stressa abitudini e modalità di consumo?

Due immagini simboliche possono intanto aiutarci a mettere le cose in un quadro. Un treno e un furgone. Il treno è quello dei fratelli Lumière che, anche se non fu proiettato il 28 dicembre 1895 nella prima uscita pubblica del Cinématographe nel Salon indien nel Grand Café sul Boulevard des Capucins, è diventato l’immagine germinale del cinema. Il furgone è invece quello che ha trasportato i primi vaccini nell’ospedale Spallanzani di Roma e, al tempo stesso, attraverso la televisione è entrato in tutte le case. Li citiamo per dire di una discontinuità che nel primo caso inaugurò il tempo del cinema, nel secondo potrebbe avviare a un contenimento si spera risolutivo della pandemia e dunque ricreare condizioni in cui arretrino le zone rosse e arancione fino all’auspicato bianco.

La domanda che non potrà avere risposta che dal divenire delle cose è se il cambiamento in atto sia congiunturale o strutturale, se cioè il Covid-19  appartenga all’ordine dell’irreversibile e dunque se non abbia interferito profondamente con la percezione stessa del tempo e dello spazio, toccato alla radice e svuotato un tratto distintivo di una modernità che ha eletto a luogo simbolico la metropoli e in essa ha incistato un guscio domestico sempre più attrezzato, fino ad essere interfacciato con la realtà pervasiva delle tecnologie. Lo stiamo vedendo, vale per tutta la quotidianità e dunque per tutte gli ambiti comportamentali in cui si articola: la scuola, lo sport, l’alimentazione, i rapporti familiari e tra le generazioni, la cultura, l’intrattenimento… la politica.

Già, anche la politica, sia in senso lato, l’organizzazione sociale e il sistema delle relazioni, sia per quanto riguarda il dispositivo del governo e delle istituzioni che un tempo erano indiscutibilmente ricondotte al paradigma della democrazia e che da alcuni anni manifestano una deriva rispetto ai cardini della rappresentanza, della mediazione partitica, dei diritti della persona, della stessa legittimazione elettorale.

Il destino della sala buia, il digitale e la post-democrazia

E dunque anche la sala buia e il cinema, nella loro parzialità, non possono che essere collocati nella complessità del processo che sta depotenziando la fisicità dei luoghi e delle relazioni e li sta atomizzando nella dimensione domestica di una casa-bunker, in cui rifluiscono anche il tempo del lavoro e del divertimento, in uno spostamento che riguarda alla fine il potere nel suo rapporto con la società e gli individui che la compongono. Il Covid non ha fatto differenze – semmai le abbiamo fatte noi, con le modalità di gestione e le contraddizioni sociali che ha evidenziato e aggravato – si è imposto alla frammentazione sociale e ha prodotto la legge universale del distanziamento e della connessione. Distanziamento fisico e connessione nella simulazione resa possibile dalle tecnologie. Insomma, il virus è entrato nella complessità della trasformazione dall’analogico al digitale e certamente ha determinato un’accelerazione/estensione di una linea di tendenza che non può non essere letta anche in una dialettica con un sistema del potere che ha retroagito sul virus e ha oggettivamente “approfittato” del contesto per intervenire su alcuni dei tratti distintivi del paradigma democratico (9).

Questo non vuol dire un destino ineluttabile. Il destino della storia è sempre post festum e il potere non si riorganizza a piacimento ma sempre in interazione complessa con le dinamiche sociali, dunque è la risultante e diveniente di attriti, scambi e contraddizioni. Certo, rispetto al passato il dominio raggiunto dalla tecnologia e l’ambiente che sta generando costituiscono una realtà inedita e ancora imprevedibile. Come imprevedibile è il punto di composizione tra l’analogico e il digitale. Stiamo dentro questo guado, rischioso e inquietante, e nessuno sa se avremo ancora voglia di tornare al Cinematografo o seguire Il Grande Fratello in televisione, meglio se a pagamento e nell’orario che mi va.

Note al testo

  1. Un perimetro temporale indicativo. Si può dire che dopo quel ciclo è ancora riconoscibile ma si complica nelle sue componenti, nei soggetti produttivi e nella composizione dei finanziamenti.
  2. Alcuni riferimenti testuali: Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, 1972 (trad. Adriano Aprà e Franco Ferrini). Edizione originale: Essai sur la signification au cinéma, Paris, Klincksieck, 1968; Christian Metz, La significazione del cinema, Bompiani 1971 ( trad. Alberto Farassino). Edizione originale Language et cinéma, Paris, Larousse, 1971; Gianfranco Bettetini, Cinema: lingua e scrittura, Bompiani,1968; Umberto Eco, La struttura assente: introduzione alla ricerca semiologica, Bompiani, 1968; Seymour B. Chatman, Storia e discorso, Pratiche, 1981 (trad. Elisabetta Graziosi).Edizione originale: Story and Discourse. Narrative Structure in fiction and Film, Cornell University Press, 1978.
  3. Cfr. Guglielmo Pescatore, Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv, Roma, Carocci, 2018.
  4. Secondo Rapporto sulla Produzione Audiovisiva Nazionale, realizzata dall’Apa, l’Associazione Produttori Audiovisivi, 2020
  5. Osservatorio sulla Digital Innovation del Politecnico di Milano, 2020.
  6. I dati del cinema in sala  2019, Anica, 2020.
  7. Secondo Rapporto sulla Produzione Audiovisiva Nazionale, realizzata dall’Apa, l’Associazione Produttori Audiovisivi, 2020.
  8. Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, 2018 (trad. Marco Cupellaro). Edizione originale: Polity Press, Cambridge, 2017.
  9. Solo alcuni titoli nell’ondata di riflessione sugli effetti politico/antropologico della pandemia: Giorgio Agamben, A che punto siamo?/L’epidemia come politica, Quodilibet, 2020; Colin Crouch, Combattere la post-democrazia, Laterza, 2020 (Polity Press, 2020, trad. Marco Cupellaro); Slavoj Žižek, Virus, Ponte alle Grazie, 2020 (Pandemic! Covid-19 Shakes the World, Polity Press, 2020, trad. Valentina Salvati, Federico Ferrone)); Bernard-Henry Levy, Il virus che rende folli, La Nave di Teseo, 2020 trad. Anna Maria Lorusso) . Edizione originale: Ce virus qui rend fou, Paris Grasset, 2020.

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