DL AIUTI – BIS/ Piga: 17 mld non bastano, il nuovo Governo può far finire l’austerità

DL AIUTI – BIS/ Piga: 17 mld non bastano, il nuovo Governo può far finire l’austerità

Il Decreto aiuti-bis vale 17 miliardi di euro, una cifra molto importante se si considera anche che non si è fatto ricorso a uno scostamento di bilancio. I sindacati, in particolare la Cgil e la Uil, non sono però soddisfatti dei provvedimenti adottati. Per Maurizio Landini, quanto fatto dal Governo è insufficiente e Pierpaolo Bombardieri, guardando a quanto finirà in tasca a lavoratori e pensionati, ha parlato di un’elemosina. Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, condivide queste critiche: «Siamo di fronte a un Governo austero, non keynesiano come qualcuno pensa».

Sul piatto sono stati però messi 17 miliardi di euro, non bruscolini…

Questi 17 miliardi vanno visti nel contesto della nostra economia. Dobbiamo guardare i numeri che lo stesso Governo ci ha fornito ed effettuare un confronto intertemporale per vedere di anno in anno cos’è realmente successo.

Che cosa emerge da questo confronto?

Nel 2020 il rapporto deficit/Pil è stato pari al 9,6% e il Governo ha deciso di portarlo quest’anno al 5,6%. Date le condizioni in cui ci troviamo – uscita dal Covid, crisi energetica, guerra in Ucraina – è evidente che ci sarebbe stato bisogno di una minor riduzione del disavanzo, così da poter consentire un maggiore recupero della nostra economia.

Ma abbiamo appena scoperto che cresciamo più di Francia e Germania!

Malgrado i numeri del 2022 sembrino alti, sono in realtà poca cosa rispetto al recupero di cui avevamo bisogno. Infatti, alla fine del 2023 resteremo la maglia nera in Europa considerando che rispetto a livelli pre-Covid saremo al +1,4% contro il +2,8% della media dell’Eurozona. Ma torniamo ai famosi 17 miliardi del Decreto aiuti-bis. Queste risorse derivano da una crescita superiore alle stime e dalle maggiori entrate determinate anche dall’aumento dell’inflazione. Possiamo essere soddisfatti del fatto che il Governo abbia deciso di non cedere alle sirene dei falchi e di non destinare, quindi, questo tesoretto alla riduzione del deficit. Tuttavia, non si può parlare di Governo keynesiano se sceglie di lasciare il deficit/Pil invariato al 5,6%: questo Esecutivo sta continuando a portare avanti una riduzione del disavanzo enorme rispetto al livello di difficoltà in cui si trova l’economia del Paese. 

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Dunque si sarebbe dovuto aumentare il deficit/Pil?

Sarebbe stato meglio fare in modo che restasse invariato rispetto al 7,2% dello scorso anno. E non sono il solo a pensarlo vista l’insoddisfazione dei sindacati nonostante una manovra sul cuneo fiscale indirizzata sui redditi medio-bassi. In questo Paese la forbice della disuguaglianza si sta allargando, il Meridione è in evidente difficoltà e i meno abbienti stentano. Siamo di fronte a un Governo austero, non keynesiano. I numeri della crescita vanno letti in un’ottica intertemporale, guardando da dove veniamo: siamo un Paese che, dopo aver patito una crisi peggiore rispetto a quella di altri partner europei, avrebbe dovuto recuperare di più, ma ciò non è avvenuto. 

Per quali ragioni?

Principalmente per la scelta di continuare a ridurre il deficit/Pil anziché lasciarlo al 7,2%, che vorrebbe dire avere circa 30 miliardi in più a disposizione. Ma non bisogna trascurare il fatto che queste maggiori risorse andrebbero utilizzate per gli investimenti pubblici. 

Per gli investimenti pubblici ci sarebbe già il Pnrr…

Come le ho già spiegato, il Pnrr chiede di portare a termine un piano di aggiustamento fiscale identico a quello del Fiscal compact. Al di là di questo, poi, la Corte dei Conti ha appena lanciato un allarme sulle difficoltà notevoli nella capacità di spesa delle singole amministrazioni. Non a caso il ministro Franco, in un’audizione parlamentare, aveva parlato di una spesa effettiva di circa un terzo rispetto ai fondi stanziati per vecchi progetti. Il vero problema è che senza la madre di tutte le riforme già indicata nelle precedenti interviste riguardante le stazioni appaltanti, riforma mai messa in cantiere da questo Governo, il moltiplicatore dei nostri investimenti pubblici via Pnrr rischia di essere molto vicino allo zero.

A settembre il Governo dovrà redigere la Nadef. Verrà quindi rivista la stima sul Pil per il 2023, dato che nel Def era pari al +2,3%, e conseguentemente anche il deficit/Pil quantificato al 3,9%. Non c’è il rischio che questo condizioni le scelte dell’Esecutivo che verrà?

Per quello che leggo sui media, non credo che questo Governo fisserà il quadro programmatico nella Nadef, ma esclusivamente le linee di tendenza, molto importanti, ovviamente, per capire quale quadro dell’economia l’attuale Esecutivo lascerà nelle mani del suo successore, il quale in fretta e furia dovrà predisporre un quadro programmatico.

Il nuovo Governo riuscirà a non subire le pressioni di Bruxelles, e anche della Bce da cui dipende ancora fortemente il nostro spread, per non ridurre il deficit/Pil nel programmatico?

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Il Governo giallo-verde, sospinto da un grande successo elettorale, stravolse il percorso di rientro del deficit/Pil ereditato rendendolo più espansivo, liberando una marea di risorse: purtroppo le sprecò per Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Ritengo quindi che un Esecutivo che nascesse con il sostegno democratico ottenuto nelle urne abbia il potere e la capacità negoziale per evidenziare che l’Italia ha un problema che non si risolve con l’austerità, che alla fine fa crescere il rapporto debito/Pil. Siamo ormai tutti consapevoli che questo rapporto scende solo con una maggiore crescita, la quale si genera con investimenti pubblici, la cui efficacia dipende dalla qualità delle stazioni appaltanti. 

In effetti che l’austerità non funziona lo si dovrebbe aver compreso da tempo…

Nel 2013 l’80% dei seggi di Camera e Senato era occupato da partiti che approvarono le politiche economiche europee, compreso il padre di tutti gli errori: il Fiscal compact. Si fece troppa austerità e non a caso nel 2018, senza contare Forza Italia, le forze politiche di destra e di sinistra contrarie alle ricette economiche dettate dall’Europa valevano più del 60% dei voti. Non sappiamo cosa accadrà nel 2022, ma i sondaggi sembrano indicare ancora un 60% di forze a sinistra e a destra che rifiutano le politiche economiche europee dell’austerità. Negli ultimi anni si è cercato disperatamente di far passare le politiche preferite dal 40% della popolazione sulla testa dell’altro 60% che non le voleva. Questa pillola indigesta ha portato a un’instabilità governativa incredibile, a nuovi tecnici, per quanto prestigiosi, al Governo, e a nuove sconfitte elettorali. Lo scoppio dell’alleanza Letta-Calenda dimostra l’impossibilità per chi insegue le ricette europee di formare una maggioranza vincitrice.

Vista la maggioranza che si oppone alle ricette di Bruxelles, dobbiamo considerare l’Italia un Paese anti-europeo?

No, perché nel 2013 eravamo all’80% convinti europeisti. Semplicemente non siamo più un Paese disposto a tollerare per se stesso politiche economiche europee che si sono mostrate dannose. Questa Italia sta chiedendo di mettere in atto un esperimento diverso, che si spera essere quello giusto, non quello sbagliato dei giallo-verdi. È evidente però che il Fiscal compact non funziona per l’Italia, che ha invece bisogno in questo momento di politiche veramente keynesiane. Altrimenti se si proverà a imporre nuovamente al 60% degli italiani quello che vuole l’altro 40% si rischierà di far saltare la democrazia e penso che a quel punto salterà anche l’Ue. Stiamo giocando veramente col fuoco. 

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Concretamente cosa dovrebbe chiedere il nuovo Governo all’Europa?

Al nostro Paese occorre una golden rule per non conteggiare gli investimenti pubblici nel deficit, ma al contempo l’Esecutivo deve impegnarsi nell’approvare la madre di tutte le riforme sulla qualità della spending review, quella di cui parlavo poc’anzi, che renderebbe possibile il dispiegarsi del moltiplicatore degli investimenti pubblici. Se un Governo facesse questo credibilmente, con il 60% del sostegno parlamentare, potrebbe giocarsela in Europa. Dopotutto veniamo da 5 anni in cui il debito su Pil sarebbe salito anche senza il Covid data la pessima performance di crescita.

Nella campagna elettorale non si stanno vedendo però proposte simili dalle forze politiche che rifiutano le politiche austere dell’Europa.

Un po’ sono preoccupato di questo, ma penso anche che ci possano essere le condizioni per un tavolo negoziale in cui Italia ed Europa possono agire intelligentemente perché al nostro Paese venga concesso di mettere in atto politiche espansive, ma solo con una golden rule e solo dopo adeguate garanzie su una seria spending review che non deve essere intesa come taglio della spesa, ma come grande riqualificazione della spesa, soprattutto per quello che riguarda la macchina amministrativa degli appalti che deve diventare scintillante.

(Lorenzo Torrisi)

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