Green pass, vaccini e governo della salute: per una lettura sindemica

Il documento che segue è il frutto di un’elaborazione collettiva non
semplice, maturata nei nostri centri sociali e nei contesti dove orientiamo
quotidianamente il nostro agire politico. Non ha l’obiettivo di posizionarci,
piuttosto di mettere in ordine alcune riflessioni in una fase pandemica che
ridetermina in continuazione rapporti di potere e forme di vita. Qualsiasi
rottura epocale non può essere trattata con strumenti congiunturali: questo
vale per l’analisi, per i metodi organizzativi, per le pratiche politiche. È
una sfida che si colloca nel divenire ed è nel divenire che deve plasmarsi il
nostro modo di leggere la realtà e di provare a modificarla.

Negli ultimi mesi il nostro
lessico politico ha trovato sempre più familiarità con il concetto di sindemia.
Il termine, pur coniato negli anni’ 90 dall’antropologo medico statunitense
Merrill Singer, ha riscosso successo nell’esplicazione di cause ed effetti del
Covid-19, in particolare nella relazione dialettica tra la malattia e fattori
di carattere socio-ecologico, economico e politico. La lettura sindemica del
Covid-19 impone un approccio sindemico, che non può e non deve mai cadere nel
tranello delle semplificazioni, né distaccarsi dall’humus all’interno del quale questo e altri agenti patogeni nascono
e prosperano: il capitalismo.

Un assunto quasi lapalissiano,
quantomeno per chi orienta il suo pensiero nell’alveo dell’anticapitalismo, ma
non è mai banale soffermarsi su una serie di eventi e processi che sembrano
rincorrersi e che rappresentano plasticamente il fallimento inevitabile di un
modello che si è sempre basato sull’idea di crescita perenne.

Nel giro di un anno e mezzo
abbiamo infatti visto sgretolarsi due dei principali postulati su cui si è
retto il capitalismo contemporaneo: da un lato la svendita della sanità e del
welfare come motore di una “società del benessere”, dall’altro la guerra e
l’espansionismo occidentali come presupposti della stabilità globale. Ci
riferiamo – ovviamente – agli oltre 4 milione e mezzo di morti e ai 150 milioni
di poveri in più (le stime sono della Banca Mondiale) causati dal governo della
pandemia e alla sconfitta degli USA e dei suoi alleati NATO in Afghanistan dopo
20 anni di guerra, la più lunga dell’età contemporanea. Due eventi, due
fotogrammi del reale di per sé distanti, ma che ci aiutano a stabilire la cifra
epocale e sistemica del fallimento neoliberale.

“Ripresa e
resilienza”: una narrazione polarizzante

A fronte di tutto questo, la
narrazione si va completamente schiacciando sul tema della ripartenza economica
e della frettolosa creazione di una “nuova normalità” capitalista che cancelli
di colpo tutte le contraddizioni venute finora a galla. In contemporanea con il
varo dei principali piani economici anti-Covid – in particolare il Recovery
Fund e l’American Rescue Plan – il dibattito pubblico e politico imposto dalla
governance ha provato a riassorbire i nodi critici della gestione pandemica e
addirittura a farne trampolini per una nuova “resilienza neoliberale”.
Impariamo da Naomi Klein quanto il capitalismo sia bravo a trasformare gli
“shock” – della guerra, dei disastri naturali, delle crisi economiche – in
nuove strategie di accumulazione e programmazione economico-politica. Basti
pensare a come, negli ultimi decenni, la crisi ecologica sia stata –
direttamente o indirettamente – internalizzata dal capitale nei suoi flussi di
valorizzazione (il green-washing di
cui tanto si parla è uno dei frutti di questo processo).

“Ripresa e resilienza”, tanto per
citare i due capisaldi del piano avviato dal governo Draghi, sono i mantra
di una narrazione già proiettata in una dimensione temporale post-pandemica.
Una narrazione che ammette solo categorie nette, semplificazioni e
polarizzazioni che non diano alle enormi contraddizioni emerse nei mesi scorsi
la possibilità di sedimentarsi e di esplodere.

E così il vaccino diventa
l’antidoto di tutti i mali – dimenticando che gran parte della popolazione
mondiale non è vaccinata a causa dell’assurdo brevetto che il WTO ha confermato
lo scorso marzo – e il green pass lo strumento che attesti formalmente la
possibilità di tornare a produrre e consumare “in sicurezza”, come se nulla
fosse accaduto. D’altro canto, le critiche tanto ai vaccini quanto al green
pass che abbiamo visto affiorare nell’arena pubblica fanno parte della stessa
logica di reductio ad unum, che
riduce l’orizzonte di possibilità che qualsiasi fase di crisi contiene al suo
interno. Per questo crediamo che un altro ordine discorsivo sia urgente e
necessario.

Vaccino e accesso alle cure: una visione globale

In merito ai vaccini vogliamo
ribadire alcuni punti già esplicitati nei mesi scorsi, partendo dalla premessa.
Il vaccino non è la panacea, non è la soluzione definitiva. Se è vero che a
monte della sindemia di Covid19 sta un salto di specie del virus e se è vero
che la probabilità di tali evenienze aumenta a causa dell’attuale modello
neoliberale di rapporto tra l’animale umano, gli animali non umani e l’ambiente
(per l’estensione dell’industria zootecnica, per l’antropizzazione progressiva
di spazi di wilderness, per gli
insaziabili appetiti estrattivisti), allora la soluzione da praticare dovrebbe
essere la sostituzione del capitalismo globale con altri modelli non improntati
al profitto e all’imperativo dello sviluppo, ma alla salvaguardia e
all’affermazione dei commons. La sindemia
di Covid 19, non ci stanchiamo di ripeterlo, non è un fatto scollegato dalla
crisi climatica, ne è piuttosto uno dei sintomi, uno degli effetti collaterali
dell’estrattivismo contemporaneo, della continua violenza che il capitalismo
dirige nei confronti della rete della vita, nel tentativo di metterla a valore.

Ciò detto, cioè una volta
chiarito il quadro sistemico, ci pare innegabile che il vaccino, in questa
fase, sia servito e serva a rallentare l’epidemia e a salvare milioni e milioni
di vite, in particolare quelle dei soggetti fragili, su cui il Covid19 produce
gli effetti più drammatici.

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Altro che no vax, il problema è semmai che, a livello globale, c’è ancora
poca gente vaccinata. C’è un’enorme ed irrisolta questione geopolitica di
distribuzione (oltre che di concezione) del vaccino. I paesi più ricchi ne
fanno scorte, mentre quelli più poveri sono tenuti in una situazione di grande
scarsità. Un approccio che è stato confermato nella riunione ministeriale del G-20 dedicata alla salute, tenutasi la scorsa settimana.

Già durante la prima fase della campagna vaccinale abbiamo chiesto
con forza (e continuiamo a farlo) che venga sospesa la disciplina dei brevetti
(come prima cosa) e che si progettino vaccini non solo a misura dei paesi
ricchi, ma adatti anche a quegli altri paesi in cui, a causa del divide
tecnologico o dell’assenza di un apparato burocratico efficiente, sia, ad
esempio, complicato mantenere la catena del freddo, oppure organizzare un piano
di doppia somministrazione.

Naturalmente la scienza non
esiste in quanto universale. La medicina, come qualsiasi altro sapere, è
iscritto in una rete di poteri. È, cioè, sempre un fatto politico, oltre che
tecnico. È dunque necessaria una contestazione del meccanismo attuale in cui,
con il sostegno dei governi, le big
pharma
hanno già accumulato profitti stratosferici a partire da enormi
investimenti pubblici ed è importantissimo non lasciar cadere il discorso
contro la neoliberalizzazione della sanità pubblica che ci aveva visti
protagonisti durante la prima ondata. 

Assieme ad una democratizzazione
della progettazione dei vaccini e della loro distribuzione, va affermata la necessità
di potenziare la sanità pubblica, le terapie intensive, i presidi territoriali,
l’integrazione tra sociale e sanitario, la prevenzione, la gratuità del tampone
e così via. Oggi, nel quadro di grandi piani di finanziamento come il Recovery
plan, potenziare la sanità pubblica (e l’interezza del welfare e forme che si
avvicinino ad un reddito di base incondizionato) sarebbe possibile. Come
sempre, però, prevale la logica neoliberale. La grande maggioranza delle
risorse continua ad essere dirottata verso le imprese le quali possono
continuare il loro business as usual
(anche quelle che inquinano, che contribuiscono al riscaldamento globale o non
rispettano i diritti del lavoro) e, in più, possono darsi una verniciata di
verde approfittando degli ulteriori fondi collegati alle retoriche sulla
transizione ecologica e alla fantomatica svolta green.

La riduzione della medicina da
dato politico a dato tecnico, affidarsi totalmente alle mani (solo
apparentemente slegate) dei cosiddetti esperti, significa tra l’altro,
dimenticare tutta una serie di lotte, quelle operaie sul diritto alla salute, e
tutta una serie di saperi, quelli contro la medicalizzazione della società che
sono patrimonio dei movimenti e che dovremmo essere in grado di rivitalizzare
in questo momento storico. Se gli anni Sessanta hanno registrato i primi grandi
risultati in termini di diritto alla salute nelle fabbriche, non lo si deve
agli esperti, all’apparato medico, lo si deve alle lotte degli operai che hanno
affrontato il tema della loro salute come questione collettiva, non
individuale, come fatto parziale e non universale, come problema iscritto nel
quadro del rapporto tra le classi.

Green pass: un approccio
contestuale

Tali riflessioni ci aiutano anche
ad inquadrare un tema di attualità, la cosiddetta certificazione verde. 

Prima di entrare nel merito di
una lettura critica del Green Pass, è
utile una premessa sul dibattito stesso nato intorno a questo strumento. Un
dibattito polarizzato, in cui le uniche posizioni in campo sono le opzioni
manicheiste di chi sposa in toto il lasciapassare e di chi invece rifiuta la
vaccinazione in nome di una non meglio definita “libertà”.

Un dibattito che media mainstream e classe dirigente seguono da
vicino, in un incessante succedersi di botta e risposta, titoli
sensazionalistici, servizi televisivi e via discorrendo. Ma l’attenzione
morbosa su questa contrapposizione non va bollata come “giornalismo da
strapazzo”, come puro sciacallaggio mediatico: altro non è che una
strategia utile al sistema neoliberale, che offre un’arena di giochi
gladiatorii per nascondere il teatro degli orrori che, lì sotto, va in
scena. 

Focalizzare l’attenzione su un
dibattito grottesco – nei toni e negli argomenti – è la soluzione che la governance neoliberale ha trovato per
evitare che l’occhio indugiasse sulla gestione disastrosa dell’emergenza prima
e sull’inadeguatezza delle misure di prevenzione dopo (dal taglio della spesa
pubblica per la sanità al mancato potenziamento del trasporto pubblico). Questo
significa che stare dentro al dibattito sul green pass voglia dire fare il
gioco della governance che ha reso
possibile tutto questo? No, altrimenti non scriveremmo questo editoriale.
Perché fortunatamente, tra il bianco e il nero, esistono infinite sfumature, e
la lettura critica del green pass può essere uno strumento utile a svelare
quali siano siate le mancanze, le colpe, le tendenze e gli interessi da
tutelare dietro la crisi pandemica.

Quali sono le critiche che ci
sentiamo di muovere al Green Pass?

In primis ci pare evidente la sua scarsa efficacia, la sua
applicazione irrazionale, funzionale a quella “ripresa e resilienza” di cui
parlavamo in precedenza: sì in mensa, no in fabbrica; sì nei treni a lunga
percorrenza, no nei negli affollatissimi treni dei pendolari; sì al ristorante,
no ad un frequentatissimo aperitivo in piedi e così via.

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Inoltre si tratta di uno
strumento che, come il lockdown,
contribuisce a produrre un’idea di salute come fatto individuale, scaricando la
responsabilità sull’individuo e disegnando, in prospettiva, una società a
misura di neoliberismo (individui connessi ma isolati fisicamente, tracciati,
colpevolezzati e competitivi, produttivi ma non tutelati sul luogo di lavoro,
improntati al consumo di merci materiali ed immateriali). In questo, il
capitalismo è avvantaggiato da decenni di politiche atomizzatrici, che hanno
avuto come obiettivo lo smantellamento di qualunque idea di common. Se da un lato la narrazione
dominante si è concentrata sulla responsabilità individuale come unica forma di
contenimento dei contagi, va d’altro canto constatato come la pratica della
cura comune sia stata prerogativa delle sole comunità politiche o politicizzate
e non si sia imposta nel dibattito pubblico. Questo per l’assuefazione a una
visione egocentrica e individualista che le nostre società ormai esperiscono. 

La società neoliberale rimane
coerente con sé stessa anche nell’applicazione di questa nuova misura, che va
ancora una volta a discapito delle classi sociali già marginalizzate, di quelle
categorie che non rientrano nella logica produttiva: non è chi non vuole
vaccinarsi ad essere penalizzato dal Green Pass, ma chi non può. Persone
invisibili, senza dimora, senza documenti, prive dell’autonomia decisionale a
causa dell’età o di altri fattori medici e non, tante di queste categorie non
vengono nemmeno conteggiate nella “popolazione” presa in esame per le
statistiche ufficiali. Quindi come può essere il Green Pass una misura di
tutela della salute collettiva se il vaccino non è accessibile alla
collettività tutta?

Per non parlare poi
dell’inaccessibilità della campagna comunicativa vaccinale, che ha dimostrato
quanta poca attenzione e cura ad esempio si abbia nei confronti delle comunità
di migranti presenti sul territorio nazionale, che sono state completamente lasciate
indietro dall’organizzazione statale, e hanno dovuto affrontare la situazione
pandemica contando solo sulle proprie forze. 

È solo mettendoci in ascolto
delle esigenze di chi è stato lasciato indietro che arriviamo a comprendere
quali siano le criticità di questo strumento. Si pensi, per fare un altro
esempio, alle persone transgender: già prima erano soggette alla
discriminazione causata dalla lentezza burocratica e da leggi anacronistiche
per quanto riguarda la sostituzione, nei documenti d’identità, del nome
d’elezione al posto del “deadname”.
Ora sono costrette a fare affidamento sulla sensibilità di chi richiede
l’esposizione di questo ulteriore documento, trovandosi nella maggior parte dei
casi a compiere un outing forzato,
parliamo quindi di un’ulteriore violenza transfobica.  

Come vediamo, per avere un
approccio critico a questo dispositivo occorre, ancora una volta, sfuggire da
semplificazioni e riduzioni di complessità. Come qualsiasi altro strumento di
identificazione digitale, anche il Green Pass si inserisce nei grandi ingranaggi
del capitalismo delle piattaforme. Criticarlo da questo punto di vista non può
prescindere da una presa di consapevolezza collettiva quantomeno su due
questioni: da un lato l’ingerenza che la tecnologia ha nel modificare
soggettività e comportamenti, dall’altro la definizione del cyberspazio come
terreno di controllo e di conflitto. Bisogna però riconoscere che da diversi
anni scontiamo una marginalità nei movimenti di una discussione su queste
tematiche che, a nostro avviso, deve investire innanzitutto l’utilizzo della
galassia dei social network.

Un altro elemento di criticità è
il piano della compressione dei diritti, a fronte di uno spostamento sempre più
evidente verso una governance autoritaria e tecnocratica. Anche in questo caso
l’analisi va collocata all’interno di un superamento dall’alto dello Stato di
diritto, processo che stiamo vedendo da anni in tutti i Paesi occidentali – che
hanno fatto da “culla” allo Stato moderno – e che hanno avuto nelle persone
migranti e socialmente più vulnerabili i soggetti su cui in primis si è applicata una normazione che tende ad assoggettare
completamente il bios. Basti pensare
a quello che accadeva nel nostro Paese nella fase immediatamente pre-pandemica,
con i due decreti che portavano il nome dell’ex ministro Salvini e poi
diventati leggi (che hanno avuto illustri predecessori nei decreti
Minniti-Orlando), che i governi successivi non hanno mai avuto la reale volontà
di modificare. È chiaro che su questo piano dobbiamo riflettere su come nella
sindemia si siano incuneate notevoli accelerazioni a questo processo di
dismissione democratica, ma riteniamo – come abbiamo ripetutamente detto e fatto
– che l’antidoto migliore a queste derive sia quello di ribaltare i rapporti di
forza e di riaffermare costantemente l’agibilità attraverso l’iniziativa
politica autonoma.

Difesa del privilegio vs
cura della comunità

Le critiche al Green Pass come strumento
in sé, vanno quindi relativizzate e contestualizzate in uno spettro di fase più
ampio. Per questa ragione non riteniamo che quella contro il Green Pass
rappresenti una battaglia campale, anzi siamo abbastanza convinti che isolarla
dal contesto sindemico in cui siamo immersi sia altamente pericoloso e
fuorviante.

Il ragionamento a freddo non è un
lusso che noi movimenti possiamo permetterci, sia per ragioni etiche che
materiali.  Noi che gestiamo spazi, promuoviamo forme di vita in comune,
organizziamo manifestazioni, campeggi, frequentiamo le strade, le scuole, le
fabbriche e le università, noi che abbiamo promosso iniziative di mutualismo
che coinvolgessero le fasce più colpite durante la prima ondata, noi che
abbiamo perso amici, amiche e familiari per il Covid, abbiamo il dovere di
rifiutare il cinismo, sia quello della ragione che quello dell’istinto. 

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Dunque, all’entusiasmo dei
governi liberali (sinistra in testa, che per l’ennesima volta si conferma
baluardo dello statalismo più becero) per l’applicazione di misure
straordinarie come lockdown o lasciapassare, non è possibile contrapporre quel
messaggio che emerge in queste settimane dalle piazze “no green pass”, il cui
filo conduttore con la melassa “no vax” ci pare essere evidente. Si tratta, lo
sappiamo da tempo, di un messaggio venato di negazionismo, complottismo,
darwinismo sociale e di un individualismo proprietario di marca decisamente
reazionaria, che ha spazzato via – o ha reso estremamente marginale – qualsiasi
approccio critico alla questione vaccinale che fosse più articolato. Ammesso
che la composizione di quelle piazze ecceda il binomio fascismo-complottismo new age, che pure è presente, ci pare al
momento politicamente sbagliato guardare a questo fenomeno come a qualcosa in
grado di dare voce e forza a forme di riscatto sociale. Perché, come analizzato
precedentemente, le categorie che vedono limitare la loro libertà
dall’applicazione di questa misura (persone senza dimora, senza documenti,
minorenni, transgender, ecc.) sono molto diverse da quelle che troviamo nelle
piazze. 

Oltre a questo dato materiale, ce
n’è un altro di carattere più concettuale che ci sembra utile evidenziare.
Nella liquidità di queste piazze e della lettura teorica di chi le sostiene
emerge un minimo comune denominatore che evoca la libertà contro una
fantomatica dittatura sanitaria o – nei casi più “colti” – contro un astratto
potere autoritario che nasce dallo “stato d’eccezione”. Noi crediamo che dare
alla “libertà” un’impronta quasi tautologica, espropriata da un’idea di società
liberata dal capitalismo, presti il fianco a pulsioni e strategie reazionarie.
Non è un caso che questo tipo di piazze in tutto il mondo stia rappresentando
il principale laboratorio di una nuova destra, egemonizzata dall’alt right americana e da QAnon, che sta raccogliendo
adepti proprio facendo leva su uno pseudo ribellismo contro oscuri disegni e
“poteri forti”. Il tema della libertà non può essere banalizzato e diventare
ostaggio di evocazioni ideologiche; al contrario è necessario interrogarsi su
come creare corto circuiti in grado di rompere l’essenza della governamentalità
contemporanea, che si basa sulla continua dialettica tra produzione dell’emergenza
e normazione della stessa.

A tutti coloro i quali non sono
né fascisti né seguaci di qualche filone complottista, ma che sommersi dalla
melma dei social network e dell’informazione ufficiale si sentono
comprensibilmente spaventati ed incerti, dovremmo offrire qualcosa di diverso:
non uno pseudo-movimento (mediaticamente sovraesposto) espressione di passioni
tristi (la paura), di deliri negazionisti e del privilegio bianco e di classe
(la scelta di non vaccinarsi è più semplice dove esiste un sistema sanitario
pubblico in grado di metterci una pezza, o possedendo le risorse per pagare
cure private), ma un movimento che guardi alla salute come bene comune, che non
rinunci alla critica dell’apparato medico neoliberale (anche del vaccino), ma
inserendola nell’alveo di percorsi di emancipazione collettiva, di cura comune
e, in definitiva, in grado di chiarire il carattere sistemico del problema,
ovvero offrendo un punto di vista anticapitalista.

All’interno di questo punto di
vista non possiamo non riflettere su tutte le attività che ogni giorno mettiamo
in campo per affermare veri spazi di libertà, che passano dalla consapevolezza
e dall’autodeterminazione di noi stessi nelle lotte. Manifestazioni, presidi,
iniziative culturali fuori e dentro gli spazi sociali devono necessariamente
basarsi su un principio di cura collettiva e di tutela della salute. E questo
non riguarda solo la limitazione delle possibilità di contagio, ma l’idea
stessa che la cura ri-politicizzi lo “stare insieme” rompendo l’inerzia di una
società che per decenni si è modellata sulla solitudine normata e organizzata
dall’alto. Mai come in questa fase conflitto e cura vanno intesi in maniera
intrecciata e inestricabile: ci eravamo già interrogati su questo durante il
primo lockdown e da quel momento in
poi abbiamo attuato le misure necessarie per rendere accessibili e sicure i
luoghi in cui il conflitto viene ideato, animato, organizzato, anche al di là
dei dettami normativi.

Oggi, alla ripresa economica
della corsa al profitto a discapito della salute sentiamo ancora di più la
necessità di contrapporre la ripresa delle lotte e delle forme di resistenza
che mettano al centro un concetto di cura universale, non solo contro la
pandemia, ma soprattutto per non tornare a quella “normalità” che ci ha
costretti alla situazione attuale.

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