I Godspeed You! Black Emperor sono tornati, come sempre senza essere attesi, con un altro disco snob


Il treno solca una mattina livida. Il treno avanza dentro lame di pioggia, striscia un mare di piombo, lambisce i vapori di una raffineria, viluppi di tubi, colossali cisterne che sputano fuoco, cascami di una civiltà industriale che spasima come un pesce morente sotto un cielo senza luce. Si sente una musica apocalittica, definitiva come la fine. La fine del principio, la fine della fine. La fine di tutto. I Godspeed You! Black Emperor sono un collettivo canadese, si definiscono anarchici, anzi neppure anarchici, come tutti quelli che non vogliono ammettere di essere ultramarxisti. In realtà essi sono oltre ogni prospettiva. Sono supponenti, enfatici. Snob al punto da ritirarsi, nel 2003, convinti di essersi quasi svenduti al “sistema” per il solo fatto di suonare davanti a un pubblico. Poi ci avrebbero ripensato, forse perché non c’è alternativa, se suoni devi suonare e magari guadagnarci anche un minimo. Loro non si mostrano. Disprezzano, ma fino a un certo punto, l’informazione, che considerano asservita al sistema senza eccezioni. Non ammettono un leader. Collettivo è tutto. La loro posa è di non posare. Non parlano, neppure nelle loro composizioni. Ma le loro composizioni parlano per loro. Dicono di un mondo in cui ogni forma di capitalismo ha fallito, il militarismo trionfa, l’avidità divora. Pretendono l’abolizione di Trump (naturalmente), delle carceri, della ricchezza, di ogni differenza, di qualsiasi culto della personalità, di qualsivoglia individuo, diluito, disciolto nella massa del numero. Ossessioni ingenue o pericolose, da centri sociali o intellettuali presuntuosi e visionari e superati dalla logica del tempo.
Ma la loro musica non è numero. È disturbante e inconfondibile, non ha bisogno di parole anche se usa parole gracchiate da radio ad onde medie, un altro cascame del Secolo appassito, usa latrati da megafoni militari, cantilene di bambini, evocazioni dalle distruzioni del mondo. I Godspeed You! Black Emperor sono tornati, come sempre senza essere attesi, con un disco dal nome improponibile, dunque snob oltre il lecito, che si scrive così: G_d’s Pee AT STATE’S END! Dietro l’autocitazione stropicciata del nome, si legge qualcosa del tipo “La pipì di Dio alla fine dello Stato!”. È un’opera figlia della pandemia o meglio della separazione che da più d’un anno ci nega anzitutto come esseri umani. Come individui prima che come collettività. E forse loro non lo colgono, ma è questo che stupendamente ci comunicano con il loro lavoro più ispirato dai tempi di “Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven”, roba di 21 anni fa; i dischi successivi al ritorno, dal 2013, si perdevano un po’ nell’enfasi nichilista, affogavano in vortici di rumore fine a se stesso: qui i GYBE tornano a scolpire sinfonie battute col tempo di passi anfibi sul terreno, dove perdersi senza scampo. Sono due suite da venti minuti l’una, intervallate da altrettanti intermezzi di sei minuti. Meno di un’ora per cantare della fine del mondo come lo abbiamo conosciuto, subito, amato, forse della fine di ogni mondo.
È ironico, forse, ma non c’è rimpianto più bruciante di questa cantata senza parole per una società detestata, ma della quale si avverte ora tutto il vuoto, proteso su un baratro di impossibilità. Questi canadesi vengono per comodità associati al post rock, invece ne stanno ben fuori: propongono una sorta di non-classica che affonda le radici nel secolo perduto, indulgono nella musica sperimentale, si avventurano in certo folk apocalittico, provocano il progressive, poi tornano indietro; il loro segreto, se ce n’è uno, è nella cura delle progressioni armoniche, nella scelta degli intervalli, negli inserti di nuovi strumenti e nuovi rumori in funzione di strumento, a ricamare movimenti circolari, bordoni ossessivi che invece ad ogni ritorno mutano impercettibilmente, avvolgono nelle spire di melodie seducenti e terribili: poi spezzano, tacciono, fermano, dilatano, stridono, respirano in echi di morte: poi riprendono, altra dispersione, altri vortici. Gli archi cuciono contro-melodie distoniche, uccelli e pistole trillano insieme, le chitarre implacabili montano in crescendo di onde nere che vogliono inghiottire la terra, il glockenspiel evoca sapori di terra lontana, il tempo si fa convulso, tachicardico, fino al collasso per ricominciare disperatamente implacabili. Un disco disperante: parla della fine dello Stato – di ogni Stato e di ogni stato, ma torna con disperata nostalgia a evocazioni medievali, rintocchi morti di campane, definitivi, da giorno del Giudizio. Il terzo capitolo, ovvero la sinfonia numero due, può permettersi un’apertura che rievoca sprazzi dei Three Mile Pilot, altro gruppo immenso e perduto, e va a finire su citazioni spurie di “Gloria” di Umberto Tozzi: e tutto pare estremamente coerente, pertinente. Tutto è adeguato qui. Non c’è più rumor bianco, c’è, in coda, un addio elegiaco, quasi quasi affiora il Samuel Barber dell’Adagio for String, ricordate Apocalypse Now?, c’è un addio al mondo, alla civiltà dell’eterno ritorno, tu cercaci, se vuoi, Verga, oppure quello che credi di trovarci. Lo snobismo di questo collettivo desolatamente sprezzante è tale da avere separato, nell’edizione in vinile, i due movimenti lunghi su un disco e i brevi sull’altro: senonché l’album va ascoltato rigorosamente secondo scaletta – queste non sono opere da sbiscottare secondo logica di Spotify – quindi uno è costretto ad alternare i vinili di continuo sul piatto. E cosa è mai anche questo, se non nostalgia non ammessa per un mondo detestato, odiato, ma del quale ci si ritiene orfani inconsolabili?
Enfatici, pretenziosi e insopportabilmente supponenti: ma hanno composto un disco da non perdere, una colonna sonora della fine e non importano più le declinazioni ideologiche, le suggestioni politiche, gli sfasamenti del rimpianto, resta questo incedere marziale che ci toglie le parole di gola e ce le rende superflue mentre apprendiamo che siamo noi contro di noi, ci spiamo e denunciamo a vicenda, diventiamo pazzi e idrofobi, non vediamo nessuna luce e già il governo – ogni governo – prolunga la nostra cattività senza tempo. Hanno ragione i Godspeed You! Black Emperor, tutto il mondo è finito in una dittatura che neppure si nasconde più; non risparmia niente, non lascerà niente; forse solo l’eco di questa musica potente e sconfitta, che, chissà, qualche marchingegno nei millenni a venire potrà captare in forma di onde. Questo disco siamo noi che moriamo. E lo sappiamo e non lo ammettiamo: ma lo sappiamo.
Il treno continua sotto il cielo traslucido, fianco al mare che si specchia nell’oscurità che lo schiaccia. Il treno va, noi ci siamo dentro, abbiamo facce di morti non viventi che ci impauriscono a vicenda, ma la cosa terrificante è che il treno non va da nessuna parte, non è partito da nessun luogo, non è destinato a nessun arrivo.

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