Mi sono ammalata anche io, a novembre. Tralasciamo quel che è accaduto, ossia la completa latitanza del medico di famiglia, Usca e compagnia bella, e il conseguente abbandono in cui sono piombata.
Forse è per questo che ho scoperto una sorprendente assenza di panico. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare, dice John Belushi. Ma io non sono una dura. Tutt’altro. Diciamo che, complice il guasto dell’unica tv, non sono stata sufficientemente imbevuta di una narrazione pandemica volta, sin dalle prime fasi, a terrorizzare, colpevolizzare, disorientare il pubblico al di là dello schermo. E ho vagato anche tra infosfere alternative, tutte tacciate di spacciare fake news, come ora si definiscono, con un riduzionismo totalitario davvero sconcertante, le notizie che non scorrono nel main stream. Salvo poi sgorgare per canali imprevisti. Così si viene a sapere che un gruppo nutritissimo di medici di famiglia ha dimostrato che le terapie domiciliari ci sono, funzionano, e che il modello ospedalocentrico non era l’unica via da percorrere.
Ma, come tutti, anche io ho avuto paura. Solitaria paura. Perchè le parole del terrore hanno talmente intriso ogni aspetto del nostro vissuto, che, anche a tv silenziate, le respiriamo nell’aria, le ascoltiamo pronunciate dai passanti, stampate a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali. E quanto questo timore ha interferito con la capacità di ripresa del mio organismo? Quanto la solitudine, l’abbandono, la paura di possibili complicazioni? Si chiama effetto nocebo. E, vista la pervasività del battage dell’orrore, mi viene da pensar male. La paura fa ammalare.
Come pure la mancanza di aria, di movimento, di socialità. Insomma, la guarigione, per chi si è contagiato, e proteggersi e proteggere, conservando dignità e qualche umana consistenza, per gli altri, vuol dire farsi strada, faticosamente, contro una comunicazione appiattita sulla nota ossessiva della paura.
Forse non è stata sufficientemente denunciata, e sicuramente non da chi ne è ed è stato responsabile, questa manipolazione tesa a fomentare in modo parossistico la percezione del rischio. Fino a sfiorare il ridicolo. Che forse, alla fine, ci salva.
Le metafore non sono mai neutre, ma veicolano un modo di pensare e di catalogare le esperienze. In qualche modo creano anche la realtà, perché esse est percipi: le cose per noi esistono se percepite, e le percepiamo attraverso filtri concettuali, e i concetti, le metafore, sono costruzioni socioculturali. Di solito si tratta di informazioni utili alla sopravvivenza. Per questo sembra che la nostra amigdala utilizzi gran parte dei suoi neuroni per rilevare il pericolo.
Ma con una ‘giusta’ comunicazione, si può enfatizzare e aumentare l’avvertimento del rischio, allo scopo di indurre dall’alto, in modo acritico, i comportamenti ritenuti, da chi in alto si trova, corretti.
È per questi motivi che la modalità che si sceglie per descrivere e narrare la pandemia da Covid-19 incide profondamente anche sulla nostra psiche e può farci ammalare.
Ora, ad analizzarle, le metafore della narrazione pandemica sono state tutte all’insegna del terrore. Si è scelta, come secondo termine di paragone, la guerra, con tutto ciò che si può ascrivere al suo campo semantico, come la battaglia, l’eroe, il coprifuoco, il nemico, i bollettini, i caduti. Si è coniato la definizione “no vax”, che assomiglia, fonicamente a termine naz (per dire nazista), con annesso, per continuità semantico concettuale, quello di negazionista, per polarizzare, con un riduzionismo di stampo conservatore ad uso delle masse, la platea in due fronti contrapposti, l’un contro l’altro armati, in modo manicheistico e privo di sfumature. Come nel nuovo tipo di guerra di cui parlava Umberto Eco, il nemico però non appartiene a un fronte identificabile, ma è tra noi, anzi, dentro di noi.
Se da una parte la metafora bellica ha il vantaggio di rendere coesa una popolazione contro un nemico comune, nel caso di un contagio, il nemico diventa il mio prossimo, il mio vicino, il mio familiare, il mio alunno, che può infettarmi in modo subdolo, infido. Così il distanziamento sociale, dall’iniziale raccomandazione volta alla tutela, si è concretizzato nel suo contrario, ossia allontanamento anche emotivo, disumano, (i casi eclatanti di persone non soccorse prima del tampone, di anziani lasciati soli nella morte, gridano da mesi su qualsiasi pagina, cartacea o social che sia). Situazioni paradossali e che di umano non hanno assolutamente nulla.
La costruzione sociale dell’emergenza richiede quindi che il rischio venga percepito come una minaccia da eliminare, e la minaccia venga ascritta a un’intenzionalità consapevole, attuata da irresponsabili, da no vax, da complottisti increduli o dubbiosi, animati da incontrollabili volontà di contagio. Identificata la minaccia si può procedere all’attribuzione della colpa. E a chi attribuirla se non agli stessi cittadini, rei di non tollerare più un anno di vissuto emergenziale, distruttivo per la psiche, l’economia, la vita stessa?
La semantica della guerra applicata al virus inoltre fa accettare che, come in tutti i conflitti, vi siano e siano accettabili, le vittime. Alcune predestinate (le categorie fragili), altre dovute alle conseguenze del massiccio impiego delle risorse in un’unica direzione, a discapito delle necessarie attività di screening, prevenzione, e cura di altre patologie. Con un balzo di morti malattie oncologiche, cardiovascolari, o di altro tipo, magari ascritte al virus, se avvenute con tampone positivo. Queste perdite umane ‘inevitabili’- ma sul serio?- vanno ad aggiungersi al numero quotidiano dei suicidi per motivi economici, e dei giovani che, nel clima depressivo e claustrofobico delle restrizioni, non ce la fanno.
Insomma, in una guerra siamo non solo tutti più obbedienti, ma disposti ad accettare una certa percentuale di perdite, a patto che prima o poi la si vinca. Anche se a restare vivi sarà una ristretta minoranza, quella darwinianamente più forte, per natura e per privilegio.
Come già sosteneva Susan Sontag nel 1978, un’emergenza non è una guerra ma un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone.
Noi non vogliamo essere in guerra. Noi vogliamo essere in cura. Ossia, vogliamo che l’uomo si manifesti di in tutta la sua capacità di prossimità, solidarietà, compassione, pazienza e perseveranza.
E la cura non può identificarsi solo in uno, due, dieci vaccini. Perché qui è in gioco non solo la nuda vita, come la chiama Agamben, ma la nostra umanità, che il virus, anzi la sua narrazione, ha ferito in modo forse insanabile.
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