La crisi di governo è una crisi oscura, ma non è una crisi al buio

La crisi di governo è una crisi oscura, ma non è una crisi al buio

La crisi di governo che stiamo attraversando è tra le più misteriose e oscure che abbiamo vissuto. Tutta interna a dinamiche di palazzo che appaiono più autoreferenziali che popolari.

Da parte dei grillini, prendersela con tutti i loro eventuali bersagli polemici vorrà inevitabilmente dire prendersela con se stessi essendo stati complici e alleati di tutti. Molto più nascosto è quello che sta accadendo alla Lega. 

Possiamo limitarci a preoccuparci del presente, certo. Oppure possiamo occuparci del presente avendo cura di ciò verso cui stiamo inesorabilmente precipitando.

La crisi di governo che stiamo attraversando è tra le più misteriose e oscure che abbiamo vissuto. Tutta interna a dinamiche di palazzo che appaiono più autoreferenziali che popolari. Eppure anche questo momento della nostra storia recente va contestualizzato e compreso dentro tendenze e direzioni che appaiono in penombra e che prefigurano ciò che può accadere. Su due vorrei soffermarmi. Sono le due direzioni che riguardano i partiti che hanno iniziato il governo di questa legislatura, il M5s e la Lega.

L’IMPRONTA ORIGINARIA

Cominciamo da quello che è sotto i riflettori. A me pare evidente il tentativo del M5s di tornare alla sua impronta originaria, quella del populismo indistinto e del partito che rinuncia a un profilo culturale per poter “pescare” dovunque. I nove punti del cahier de doléances presentato a Draghi contengono infatti tutto e il suo contrario. Proposte che possono lusingare l’elettorato di sinistra (il reddito di cittadinanza, il salario minimo, la transizione ecologica) accanto ad altre che, come vedremo tra un attimo, sono parte integrante del programma della Lega (le rateizzazioni delle cartelle esattoriali, la difesa contro ogni evidenza del superbonus e della superbolla economica che reca con sé).

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La scelta strategica è chiara: dopo aver rincorso il dogma del governo, si tratta adesso di rifarsi una verginità e rimettersi non tanto al di sopra delle parti ma al di fuori di esse. Scelta che ha la conseguenza certa di annientare l’ipotesi di un campo largo, rinunciando alla preferenza nei confronti del centro-sinistra, e la conseguenza, molto meno, certa di recuperare consenso per se stessi.

Se è vero infatti che nella politica contemporanea la memoria è corta, è anche vero che, da parte dei grillini, prendersela con tutti i loro eventuali bersagli polemici – in ordine sparso: Draghi, il Pd, la Lega – vorrà inevitabilmente dire prendersela con se stessi – essendo stati nel frattempo complici e alleati di tutti. Per usare una metafora un po’ piccante: è dura cercare di rifarsi una verginità venendo da un periodo di accesa promiscuità politica.

LA LEGA

Molto più nascosto è quello che sta accadendo alla Lega. Che, seguendo una direzione contraria, sta chiudendo la sua parentesi populista per tornare ad essere il partito di riferimento di precise classi sociali e di un territorio ben definito. Può darsi che questa conversione sia dovuta alla concorrenza sovranista di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia. Quel che è certo è che Salvini sta velocemente dismettendo se stesso, normalizzandosi.

A sentirlo adesso, le priorità sembrano essere: uno scudo fiscale per i piccoli imprenditori del Nord e, soprattutto, un’accelerazione sul progetto dell’autonomia differenziata che viene in forma esplicita rivendicata come il modo per liberare il nord dalle catene che l’opprimono. Salvini torna a essere una semplice versione updated di Bossi.

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Non c’è nessun sollievo nel riconoscere il declino di Salvini. Non avrei mai pensato di doverlo ammettere. In realtà, non c’è nessun sollievo nel riconoscere entrambe queste traiettorie. Per vari motivi.

In primo luogo, perché nessuna delle due trasformazioni appare andare nel senso di ciò che manca: una rappresentanza politica di coloro che non hanno più rappresentanza e che sono travolti non dalla crisi di governo ma dall’inflazione e dalle politiche che sclerotizzano, invece di combattere, le diseguaglianze sociali.

In secondo luogo, perché non v’è una ricetta, tra queste indicate, che sia veramente nuova (a parte forse il reddito di cittadinanza, almeno dal punto di vista teorico e al netto della pessima elaborazione pratica che ci siamo dati in Italia). Davvero le ricette dei politici appaiono come discorsi di un bradipo: mentre fuori la realtà reclama una accelerazione della presa d’atto e della responsabilità, le loro parole scorrono lente, anacronistiche e senza alcuno sforzo d’immaginazione.

L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA

In terzo luogo, perché la parte più preoccupante di quanto scritto – il progetto dell’autonomia differenziata – sembra alla fine mettere d’accordo tutti i soggetti della politica. Non è solo il nuovo Salvini a richiederlo come priorità.

È notizia di pochi giorni che anche il Presidente Pd della Regione Toscana, Eugenio Giani, senta – in un momento così delicato come questo – come urgente e improcrastinabile affiancarsi alle altre Regioni per potersi velocemente autonomizzare. Anche il M5S non si oppone ma si limita a spargere buoni propositi che dovrebbero al massimo addolcire la pillola.

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Il fatto che proprio l’autonomia differenziata – che rappresenta una trasformazione radicale e irreversibile dell’ordinamento repubblicano – sia un punto di convergenza per tutti è davvero preoccupante.

Questa crisi di governo è una crisi oscura, ma non è una crisi al buio. Comunque finisca, le direzioni che ho delineato mi pare non si fermeranno. Possiamo limitarci a preoccuparci del presente, certo. Oppure possiamo occuparci del presente avendo cura di ciò verso cui stiamo inesorabilmente precipitando.

Sergio Labate – Presidente nazionale di Libertà e Giustizia

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