La nuova frontiera dell’antirazzismo: i corsi di “sbiancamento” del cervello


Ci siamo: nel sacro nome dell’antirazzismo, dell’uguaglianza che rigetta il concetto stesso di razza, i bianchi sono inferiori ai neri. Debbono esserlo. Debbono imparare ad esserlo, almeno secondo la Coca-Cola che ha lanciato un corso di “sbiancamento” rivolto ai dipendenti. Facoltativo, fa sapere l’azienda, ma è la tipica opzione del Dott. Ing. Gran Mascalzon Cav di Gran Croc. Visconte Cobram: debbono partecipare tutti! Altrimenti, li aspetta la sala mensa. Ora, non è chiaro cosa si intenda per sbiancamento (ma quello che non si sa si può facilmente immaginare), né in cosa consistano concretamente questi preoccupanti corsi: il paradosso è che prevedono un lavaggio del cervello, un candeggio integrale. Sbiancare per imbiancare, come Calimero. La ripulitura, ci informano le cronache, è affidata a una studiosa di sbiancamenti, certa Robin DiAngelo, che solo a cercarla su Google ti va sui coglioni come ci vanno le prugne secche dell’antirazzismo ultrà militante genderfemminista controsessista. Tipica faccia da ossessa, di quelle molto brave a cavar soldi dalle alghe di un pensiero malsano: ha scritto uno sproloquio, ovviamente diventata best seller, “White fragility”, fragilità bianca, tradotto anche in Italia.
Fragilità perché? Perché il bianco è perdente di default, se sei bianco, fai schifo. Pensi bianco, sei cattivo, brutto e un po’ stronzo, rancoroso come un virus, meschino come la dissenteria, colpevole di tutto e a prescindere. Ci hai il peccato cromatico originale. Tu ti alzi ogni mattina, ti guardi allo specchio e dici: sono bianco, che merda. Insomma dovevamo arrivarci e ci siamo arrivati: in confronto, gli sproloqui della Nation of Islam, quella che negli anni Sessanta postulava un isolamento nero basato sulla superiorità di una pura razza nera, è troppo morbida, ha bisogno dei corsi di Robin. Che peraltro è bianca, bianchissima. Però è democratica e si vergogna molto non di sé ma della razza bianca, quindi l’expertise è in regola. Cosa cazzo gli faranno fare, ai poveri dipendenti della Coca-Cola, in virtù dello sbiancamento, meglio non saperlo: frizione integrale con lucido da scarpe testa di moro ogni turno?
È un peccato. È anche un dramma perché il rigurgito – o, trattandosi della bevanda gassata, il rutto – è sempre in agguato: mentre la cultura nera è straordinaria, di una ricchezza incomparabile, basti solo pensare ai mille lasciti; al blues, da cui tutta la musica popolare discende, al jazz, al rock (“il blues e il jazz hanno avuto un bambino e l’hanno chiamato rock and roll”, Muddy Waters), fino al rap “radio del ghetto” e al connubio mistica-musica del reggae; e poi l’immensa epopea sportiva, il pugilato che è assolutamente dei neri, il basket, le lotte per la parità, le rivendicazioni – quelle di un tempo, non le pagliacciate del Black Lives Matters – le storie tragiche ed epiche di una nazione nella nazione, una nazione nel mondo che non ha mai smesso di rivendicare il suo spazio, il grande umorismo nero, ce n’è di che appassionarsi per cento vite. Langston Hughes e Richard Wright, James Baldwin e Frederick Douglas, Toni Morrison e Alice Walker. Basquiat e Faith Ringgold. Non è un elenco sterile, è una minima casistica di artisti usciti da uno specifico complesso e incomparabile, la negritudine come modo di essere, di sentire, di muoversi, di pensare. Tutto appassionante, tutto troppo grande e in certo modo diverso – non inferiore o superiore: unico, particolare – per poter essere ridotto a un volgare corso di sbiancamento. Non è per questa strada che si costruisce una compatibilità, un confronto basato sul rispetto delle diversità e sui punti in comune che ogni umano ha con tutti gli altri; qui c’è solo odio, odio e stupidità ammantati di politicamente corretto.
Ed è un odio pericoloso, perché sta annientando la ragione: dai poetici capolavori a cartoni animati di 50 anni fa, oggi bollati come razzisti al sospetto che grava su ogni parola, da Youtube che blocca un tutorial per gli scacchi perché “il bianco attacca il nero” (se avessero detto “il nero mangia il bianco”, cos’era: cannibalismo?), alla “matematica antirazzista”, con il che anche la vecchia, odiosa formula dell’uno più uno che fa due è sistemata, fino allo sbiancamento, c’è da concludere che il mondo ha perso la brocca. C’è un film intramontabile, “Scappo dalla città”, con Billy Crystal, in cui due neri, padre e figlio, entrambi dentisti, si trovano col protagonista che vuol fare amicizia: niente da fare, il giovane ad ogni sorriso, ogni mano porta, ogni proposta conviviale, insorge come una Pantera Nera: “Che vuoi dire? Beh? Siamo neri e siamo dentisti, non facciamone un dramma, ok? O è un problema per te?”. Billy stravolto; il dentista senior che, conciliante, tenta di instillare nel figlio un barlume di ragione: “Guarda che voleva solo offrici un caffè”. Ecco, qui sta andando a puttane proprio il barlume. Che forse è proprio ciò che, sotto sotto, si cerca. In tutta questa orgia di sbiancamento del cervello, una cosa non quadra: la Coca-Cola, come bevanda, è scurissima ed eccitante, come caffè liquido, ma tutte le altre prodotte dalla corporation no: Fanta, Sprite, la Kinley tonica è addirittura diafana. Sono bevande razziste e anche un po’ sessiste; beh, che facciamo? Le sbianchiamo tutte, le coloriamo, le ritiriamo dal mercato o le facciamo bere solo alla candida Robin?

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