La scomparsa dei baristi e i giovani concentrati a non lavorare

La scomparsa dei baristi e i giovani concentrati a non lavorare

Sta succedendo qualcosa nel mondo del lavoro, e se pensate di trovare la risposta a «sì, ma cosa?» in questo articolo, vi avviso subito che esso viene scritto da una che non si accorge delle notizie quando esse notizie accadono sotto casa sua.

A Bologna c’è un posto famoso per il caffè, si chiama Terzi, le mie amiche ne vanno pazze, io meno giacché non bevo caffè, ma Terzi ha il vantaggio di riempirti il caffè di cioccolata e altre cose che lo fanno sapere meno di caffè.

Bevo però il cappuccino, ed è stato così che l’anno scorso ho scoperto quello che nel mio lessico famigliare è divenuto subito «il baracchino». Il baracchino è una dépendance di Terzi dove, se non piove o nevica (cosa che non accade più praticamente mai, non esistendo più non dico l’inverno ma anche solo l’autunno), puoi prendere il cappuccino stando all’aperto. E lo fanno buono come da Terzi, lo garantisce non solo l’insegna ma la lentezza.

Questa cosa della lentezza (una caratteristica che mi esaspera) me l’ha spiegata il barista che c’era lì la scorsa estate: il latte va rovesciato nella tazza entro cinque secondi (o qualcosa del genere: mica penserete abbia memorizzato i secondi del perfetto cappuccino) da quando essa finisce di ricevere l’espresso; ciò non consente al barista di Terzi di fare quel che fanno tutti i baristi del mondo: due cappuccini in contemporanea, o almeno il cappuccino a uno e lo scontrino a un altro.

Quindi se andavi a prendere il cappuccino al baracchino dovevi mettere in conto di non potertela cavare in fretta, e anche – bevendolo in mezzo alla strada – di essere interrotta, nel giro d’un solo cappuccino, da almeno cinque persone che t’avrebbero chiesto la carità (la città più accogliente d’Europa rivaleggia con Nuova Delhi per numero di mendicanti, oltre che per spazzatura fuori dai cassonetti).

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Tuttavia facevano il cappuccino buonissimo, e il cappuccino buono fa la differenza: ero disposta persino ad attendere. Il barista che mi aveva svelato la questione dei secondi mi aveva però annunciato che lui ad agosto sarebbe andato a vivere in campagna e non avrebbe più potuto lavorare lì, ma tanto a settembre avrebbero chiuso: mica era un posto che potevi tenere aperto d’inverno, pronosticava.

Poi però il baracchino non ha chiuso, e io non mi sono più fatta domande: mica ti fai domande, finché non sei costretta. Finché non buchi la notizia.

La settimana scorsa parlavo con un amico ristoratore. Mi diceva che ormai passa tre giorni a settimana a fare colloqui: prima trovava una persona da assumere nel giro di dieci colloqui, adesso ce ne vogliono venticinque. Ventiquattro ti diranno che non vogliono lavorare la sera, che vogliono i fine settimana liberi, che si sentono artisti.

Ho pensato che qualcosa sta sicuramente succedendo, ma non è per non farci insultare sui social da gente che dice «è perché non li pagate, schiavisti, sfruttatori» che non lo scriviamo: è perché nessuno ha capito cosa diavolo stia succedendo.

La pandemia? Il reddito di cittadinanza? Già prima di queste concause ricordo uno chef di Milano che mi raccontava di gente che ai colloqui, dopo aver preso appuntamento, non si presentava proprio. Nessuno ha più voglia di lavorare, e come non capirli. La domanda è: come campano? Tutti con la baby pensione della nonna?

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Due sabati fa, a Milano, ho passato la giornata a cercare taxi introvabili. Quando finalmente sono salita su uno e ho chiesto al tassista la ragione di questa scarsezza di taxi, mi ha risposto: nessuno vuole più fare i turni nel weekend, i giovani vogliono la qualità della vita. Come fai a dire a un tassista «tu non hai diritto alla qualità della vita». Forse potresti provare a spiegargli che la qualità della vita non è andare all’Ikea di sabato, ma è difficile anche quello.

Qualche giorno dopo, dovendo andare a Roma e non volendomi trovare senza taxi, ho provato a prenotare un autista. Quello che ho chiamato al nord mi ha detto che non poteva prendersi la responsabilità di garantirmi che mi avrebbe portata in stazione, «è una settimana impegnativa e devo stare concentrato»; a quel punto erano talmente saltati i parametri che, quando l’autista romano ha voluto quaranta euro in contanti, non mi sono neanche innervosita: non pagava le tasse ma almeno mi portava a destinazione violando il proprio diritto alla concentrazione.

Mentre ero ovunque tranne che a Bologna, il baracchino ha chiuso, e io l’ho dovuto scoprire dal Resto del Carlino che ha pubblicato il cartello in cui Terzi dice che chiude per mancanza di baristi (non posso neanche mandare il curriculum, non avendo memorizzato il conteggio dei secondi).

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Dal Carlino e dall’immancabile polemica di Twitter, che considera milletrecento euro uno stipendio inadeguato (su Twitter è tutt’un sopravvalutare il proprio valore, quello morale e quello di mercato). Da Terzi dicono che non trovano baristi, che nessuno ha voglia di lavorare, che offrono lavoro e nessuno risponde.

Mi sono ricordata dell’ultima volta che mi sono seduta al baracchino, erano le otto meno cinque e loro aprivano alle otto, ma io non avevo dietro il telefono e quindi non sapevo l’ora. Il ragazzo che era dietro al bancone – e che chissà per quante settimane avrà sopportato d’avere un lavoro vero – mi ha sibilato: non siamo ancora aperti. Inspiegabilmente non ha aggiunto: e io devo stare concentrato.

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