Guai a considerare lo scontro nei 5 stelle solo come una bega di partito, sia pure il più rappresentato ancora nel Parlamento italiano.
Se fosse unicamente questo, sarebbe poco interessante, specie in una fase in cui i cittadini italiani sembrano infischiarsene della cosiddetta politichetta ridotta a questa caricatura di se stessa, a causa della mancanza di credibilità del personale addetto e dell’inconcludenza e della rissosità dei protagonisti di uno spettacolo scadente. Nella guerra tra Conte e Di Maio c’è molto di più. E’ una vicenda che, spogliata dagli stucchevoli personalismi, io contro di te e tu contro di me, riguarda la collocazione dell’Italia in Europa e nel mondo; la sicurezza nazionale derivante proprio dalla nostra posizione nello scenario geo-politico; la qualità e l’affidabilità della classe dirigente; e, soprattutto, la stabilità di uno Stato, di un governo e di un’intera comunità di cittadini in una fase tremendamente delicata.
Tutti temi che non rientrano nell’asfissiante recinto quotidiano dei partiti e dei loro attori (io gli ho detto, lui mi ha detto e bla bla bla) e riguardano invece in senso largo il presente e il futuro del nostro sistema Paese.
Per non dire di quanto sia auto-lesionista creare una frattura così grave, con l’appoggio esterno di Salvini a Conte, non tanto in un partito ma in un tessuto alla vigilia di un autunno che si annuncia difficilissimo tra crisi energetica e sue ricadute, tra bollette e austerità, nella vita quotidiana degli italiani.
Nell’Italia che viene da due anni di pandemia, i cui strascichi economico-sociali sono enormi e quelli sanitari tutt’altro che superati completamente e che è entrata in un’altra emergenza nazionale e internazionale, qual è il conflitto russo-ucraino di cui non si intravede neppure lontanamente la soluzione, sottoporre a stress il quadro istituzionale in nome della sopravvivenza di una leadership di partito mai davvero decollata e già svanita agli occhi dei più (tranne che a quelli del Cerchio magico dell’ex avvocato del popolo ormai deciso a dare voti ad altri come dimostrano le amministrative in corso e domenica ci sarà il ballottaggio in assenza di M5S da Nord a Sud passando dal Centro Italia) appare un riflesso condizionato da vetero-politica spacciata per neo-politica, rappresenta un classico esempio di logiche tradizionali da parte di un movimento, o almeno del suo presidente, che ancora agita la bandiera logora della diversità nella speranza di raccogliere ciò che resta del voto populista o alternativo. Terremotare un partito e mettere fuori gioco il suo esponente forse migliore o comunque che ha lavorato per esserlo (Grillo disse più o meno che i suoi discepoli tranne Di Maio sono tutte schiappe e su Conte: «Non ha capacità organizzative né visione politica») è il segno della miopia della politica andante che non sa guardare oltre il proprio ombelico.
C’è da chiedersi, tanto per cedere per un attimo alle beghe tra i due, perché Conte di Di Maio litigano. Perché Di Maio vuole appropriarsi del simbolo e della guida dei 5 stelle? No, non lo vuole affatto. Perché vuole restare in Parlamento? In realtà ha detto di sì al divieto del terzo mandato, che escluderebbe la sua ricandidatura (ma per lui, e non per i suoi, la deroga da parte di Conte è scontata). E dunque perché lo scontro? Forse perché Di Maio, in Parlamento dal 2013, oltre ad aver imparato dalla vecchia politica che proverbialmente «gli avversari stanno fuori dal partiti e i nemici dentro», ha anche appreso una serie di altre cose.
Queste: che le istituzioni vanno onorate imparando a frequentarle (prima di fare il ministro due volte è stato apprezzato vice-presidente della Camera e poi vicepremier); che non è vero che uno vale uno (chi studia e si applica va avanti, chi non lo fa resta nella dimensione propagandistica o nel ribellismo un tanto al chilo); che la politica è weberianamente una professione anche se l’Italia dell’incompetenza, dell’anti-politica e dell’egualitarismo anti-meritocratico non lo ammetterà mai; che l’infantilismo del credersi alternativi o del «chi contesta nel contesto / fa carriera assai più lesto» (secondo un simpatico scioglilingua) e altre demagogie sono merci avariate che gli elettori stanno finalmente riconoscendo come tali.
Di Maio sta dicendo praticamente che il re è nudo. Ovvero che tutta la predicazione di cui lui stesso è stato magna pars (esempio: con il reddito di cittadinanza abbiamo abolito la povertà) è diventata inservibile e che certe pseudo-culture non possono avere spazio, specie in politica estera dove servono occhio preciso e polso sicuro e non vaneggiamenti, improvvisazioni e pose. Nello scontro interno ai 5 stelle si gioca dunque lo standing di un Paese e l’idea della politica. Non una lite da ballatoio o da tinello. Ma la spia ci ciò che l’Italia è stata nel decennio grillino e che rischia di continuare ad essere fuori tempo massimo.
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