Le Storie vere di Sanpa, Daniele di Pescara: mi fecero entrare in una stanza dove dissero che c’era un telefono. L’ultima cosa che vidi fu Franchino che si levava l’orologio


Daniele è la prima voce fuori dal coro. Ci avverte fin da subito di avere un racconto diverso e di volercelo trasferire. Il suo ricordo è freddo, percepiamo nell’analisi dei suoi ricordi un rancore spento, divenuto lucido. La sua storia non appartiene sicuramente alle Luci di San Patrignano e potrebbe tranquillamente essere parte della serie tv ‘delle ombre’ mandata in onda da Netflix. Decidiamo di pubblicarlo anche per dar conto della trasparenza e autenticità di questa galleria di testimonianze, un’operazione più volte accusata di essere faziosa e lontana dalla realtà. Be’, si sappia che non è così.
Ciao Daniele, parlaci del tuo San Patrignano.
Ciao ragazzi. Allora, sono stato a SanPa tre anni, quasi quattro, dal ’90 al ’93, in un periodo piuttosto denso di avvenimenti. 
Venivi da una storia di eroina?
Si, una storia un po’ anomala, due anni scarsi di eroina. Avevo cominciato a perdere la stima di molte persone, non avevo grandi complicanze sanitarie. Ero anche uno dei pochi a non essere sieropositivo. Dal punto di vista lavorativo avevo messo su una piccola attività con la mia ragazza, i soldi sparivano, tragedie coi suoi genitori. Un mio amico era stato a San Patrignano e me ne parlò, mettendomi anche al corrente che ti venivano a riprendere se cercavi di andare via. Sono stato 34 giorni fuori dai cancelli. Eravamo tanti, molti dormivano in macchina altri in tenda. Io ero privilegiato, mio cognato tramite bonifico pagava un albergo lì a San Marino per dormire. Non avevo il papà, mia mamma aveva grossi problemi di dipendenza dall’alcol.
E poi sei entrato.
Si, io non ero un caso grave e i primi mesi posso dire che godessi quasi, non dico della stima, però ero entrato un po’ nella famiglia del gruppo a cui appartenevo, lavoravo negli uffici. Ero diplomato, ero Ragioniere Programmatore. Ricordo di aver fatto 5 minuti di colloquio con Vincenzo, c’erano parecchie persone. Vincenzo fece entrare due di noi. Con un colpo d’occhio disse a me: ‘Tu sei più facile’, all’altro invece ‘Più difficile’.
I primi tempi andarono bene. I problemi cominciarono dopo circa due mesi, un po’ per il mio carattere, sono una persona abbastanza profonda, che si pone delle domande. Il responsabile che mi seguiva era invece una mente abbastanza semplice. Scrivevo come tutti lettere verso casa, non sapevo che venissero lette e molte censurate. Le mie lettere furono interpretate negativamente da chi le controllava, ma io riportavo le cose che vedevo, io esprimevo il mio parere e ciò non era ben visto. C’era una forte censura.
Raccontaci, che clima vivevi?
Quando cominciai, cominciai con molto entusiasmo, infatti smisi subito di fumare, facevo anche sport la sera, però avevo il problema dei denti. Quando eravamo a mangiare ero l’ultimo. Il mio responsabile era pedante, quasi mi obbligava a fare presto, a ingurgitare più presto e se la prendeva con me. Diceva che lo facevo apposta. I miei denti erano rovinatissimi, quindi la mia masticazione era molto lenta.
Cominciavo a percepire una luce quasi inquisitoria, c’era un forte condizionamento, e molto veniva alimentato dalla lettura di queste lettere. Ad esempio, durante il corso di programmazione venivano degli insegnanti, essendo io preparato, un pomeriggio mi misi alla lavagna a spiegare alcune cose, pensai che fosse un atteggiamento propositivo verso gli altri, e invece partirono tante polemiche, venivano esacerbate sempre le stesse mie caratteristiche negative, ogni cosa portava al fatto che fossi presuntuoso, egoico, narcisista, critiche che mi venivano dal ragazzo che mi seguiva, l’angelo custode. Poi lui riunì tutti gli altri e così venni messo in discussione. Da lì entrai in una sorta di tensione, ero stato inquadrato sotto il profilo degli ‘uomini per niente facili, sempre poco allineati’, come dice la canzone. Il fatto di essere censurato, represso, mi faceva andare sempre più in tensione, cominciavo a perdere la tranquillità. Vedevo una mia crescente demonizzazione. Non solo io, anche altre due persone come me erano state inquadrate come capri espiatori. C’era una forte tendenza a dover essere fedeli a una certa filosofia. Venivamo attenzionati nei confronti di questi famosi reparti punitivi. Venni informato che la mia profilatura caratteriale poteva essere quasi candidata a finire in quei reparti. Se ne parlava tanto di quelle realtà tra di noi, soprattutto tra i nuovi.
Tu che lavoravi negli uffici ti sentivi posizionato meglio di altri?
Ci mancherebbe altro. No, non c’era gerarchia tra i settori. Purtroppo c’era un altro genere di gerarchia. Tanto più che durante una pausa del corso di programmazione un ragazzo tirò fuori un discorso piuttosto scottante, l’eventuale liceità che potesse avere Vincenzo a usare costrizioni, anche se non l’ho mai visto fare in prima persona sapevo del suo delegare all’uso della violenza. E questo ragazzo diceva che era lecito, e io mi permisi di dire: ‘Qui siamo in Italia, non da altre parti, non possiamo dare una liceità a mettere le mani addosso agli altri’.
Questa frase fu riportata al caposettore in maniera ingigantita e quindi non vera. Io mi misi a piangere. Usai un termine pesante, “infami” o cose del genere, ‘mi mettete in bocca cose che non ho detto!’. Questa mia perdita di controllo fece sì che il giorno dopo io e questo mio angelo custode venimmo chiamati a colloquio da Vincenzo che ebbe parole severe sia per me che per lui. Usciti dall’ufficio, essendosi sentito ripreso anche lui senza aspettarselo, il mio responsabile mi disse: ‘Bene, ora ti devi muovere, hai capito cosa rischi?’, e me lo disse in tono molto arrogante. Io mi misi a ridere, ci sentirono. Eravamo ancora vicino all’ufficio di Vincenzo. Ci fecero tornare indietro da lui, e Vincenzo senza indagare troppo, eravamo in 1.200 non è che poteva andare tanto per il sottile, decise per me il settore punitivo. Fu un vero e proprio arresto, arrivò quest’auto con tre energumeni, io messo dietro in mezzo a due persone. Non capivo quello che mi stava accadendo. Passai una notte insonne alla Manutenzione. Mi ripetevo: ‘Perché non sono riuscito a dire la mia in modo da farmi capire?’. Dovevo parlare con Vincenzo, al mattino chiesi di riparlare ancora con lui. Franchino mi disse in romanesco: ‘Si nun te sta’ a preoccupa’, adesso gli altri vanno a lavora’, poi te famo parlà co’ Vincenzo’
Gli altri uscirono. Mi fecero entrare in una stanza dove dissero che c’era un telefono. L’ultima cosa che vidi fu Franchino che si levava l’orologio. E avvenne qualcosa che non deve esistere né in cielo né in terra, sono stato menato in maniera pesante e sottoposto a una doccia gelida per 20 minuti.
In quel settore c’erano persone che chiedevano di ritornare in carcere. Gli veniva negata la possibilità di parlare sia con avvocati che con assistenti sociali. Una deprivazione che non si può non condannare.
E questo avveniva parallelamente alle tante storie umane, di amicizia, di solidarietà. In altri settori magari potevi fare quei 2-3 anni senza renderti conto di altri luoghi in cui c’era più tensione, più gerarchia, più fondamentalismo. In manutenzione io ci sono rimasto 16 mesi. 
Ho ascoltato le parole del medico Boschini nel docufilm, per quanto stimabile, ha detto anche delle cose non vere. Ha detto di non aver mai dovuto intervenire per curare ferite. Per me invece intervenne, avevo uno zigomo rotto e un occhio tumefatto.
Hai vissuto altri episodi di violenza?
Si, una volta stavamo lavorando fuori, facevamo lavori di manutenzione, pulizia, mansioni un po’ più umili, io non ho mai fatto distinzioni, anzi mi piaceva tantissimo quando si facevano lavori di forza. E quella volta lì c’era uno che stava cercando di ammazzare una lucertola, cercava di colpirla senza riuscirci, la terza volta intervenni da dietro e lo spostai fisicamente ma senza fargli niente, lo presi e lo spostai di peso. Uno degli occhi del Grande Fratello corse a riferire questo piccolo fatto non a Franchino ma al suo braccio destro, che intervenne subito facendomi una ramanzina sul fatto che noi fuori potevamo ammazzare le vecchiette, far del male a nostra madre, e lì dentro improvvisamente difendevamo le lucertole. Tutto detto in romanesco. E poi: ‘A stronzo!’ e mi arriva una manata in faccia di quelle memorabili, per fortuna mi viene da sorridere oggi. 
Ci fu anche una terza volta, mi presi un cazzotto in bocca da una persona che oggi non c’è più, è morta di Hiv, era un culturista, lavorava con Franchino. I possessori di licenza di alzare le mani erano quattro: Franchino, questo qui che è morto e altri due.
Sedici mesi alla Manutenzione. Perdevo via via l’entusiasmo. Avrei voluto iscrivermi all’università. Ogni situazione era buona per essere accusato un po’ da tutti, la forte solidarietà tra i “nonni” ti metteva in condizione di tacere. Capivi che era meglio stare zitti, anche quando non riconoscevi interiormente di aver commesso qualcosa per cui metterti in discussione. Bisognava sapersi mettere delle maschere, con molto cinismo. E molti ne erano capaci.

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Direi che tu non ti senti salvato da San Patrignano.
Potrei citare Fabio Cantelli, sono salvo ‘grazie e malgrado San Patrignano’.
(pausa, silenzio)
Quando sono uscito dalla Manutenzione andai avanti per quasi altri due anni con il mio lavoro di ragioniere programmatore. Io avevo accesso ai dati, vedevo le percentuali di chi era sieropositivo. I positivi all’Hcv (Epatite C, ndr) erano i due terzi, mentre tutti mi dicevano che io invece ero a posto. Poi, solo tre settimane prima di tornare a casa, fui avvisato che ero positivo all’Hcv. La spiegazione fu che fino ad allora i markers per tirare fuori il virus dal plasma non funzionavano ancora bene. Invece no, successivamente venni a sapere che c’era una volontà superiore di non dire a chi era positivo, di esserlo. Perché i pochi fortunati, magari raccomandati, facevano l’interferone, e l’interferone ti mette in condizione di avere un giorno, un giorno e mezzo di febbre, soprattutto i primi tempi. Si fa tre volte a settimane, quindi sarebbero state tutte persone che non avrebbero potuto lavorare. Anche a non voler essere maligno, a me che non mi hanno detto di essere positivo, che per quattro anni ho bevuto due bicchieri di vino al giorno ai pasti, con le tante tensioni che ho vissuto, quanto tutto questo ha danneggiato il mio fegato?
L’Hiv era diverso, perché è stato fatto anche un ospedale per i positivi, c’era molta più attenzione. L’Hcv invece non veniva diagnosticato. C’era una manipolazione biologica della vita della persona, non solo psicologica. 
E poi nella estrema eterogeneità delle persone che venivano inserite nei settori, ce n’erano tante che avrebbero avuto bisogno di supporti non dico personalizzati ma diversificati, psichiatri e psicologi erano assolutamente banditi, tra 1.200 persone tossicodipendenti potete immaginare quanti ne avrebbero avuto bisogno. Io avrei avuto bisogno di un rafforzamento dell’autostima, che è sempre stata molto bassa, invece quello che ho passato ha costituito una repressione, un ulteriore senso di frustrazione.
(pausa, silenzio)
Io, nonostante tutto, senza San Patrignano sarei finito peggio, avrei continuato a farmi. Non posso dire che San Patrignano non mi sia servita, ma devo riportare questi elementi fattuali, di esperienza vissuta.
Anche il tuo ricordo di Muccioli è negativo?
Sì. Ero entrato con una certa neutralità, anzi una certa stima. Lui aveva messo su quella realtà enorme. Poi l’ho sentito per esempio fare dei lavaggi di cervello prima di elezioni politiche. Bisognava individuare i settori che avevano votato più a sinistra, il motivo non te lo so dire ma era una cosa sopra la legge. Vincenzo si arrogava il diritto di dare liceità a terzi di gestire vite umane, e non solo nei reparti punitivi. 
Che messaggio lasceresti a Vincenzo oggi?
Io tornai a SanPa per andare al suo funerale, tranquillamente. Ho voluto rendergli il mio omaggio e rivedere le persone con le quali ho vissuto quella realtà, e poi anche un’altra volta sono tornato.
Perché?
Beh, sono quattro anni della mia vita, lì dentro ho vissuto anche esperienze di forte solidarietà. Pianti, fatti, abbracci. Sono passati 30 anni ma ho ancora voglia di esortarli a un’apertura, come il Vaticano che è riuscito a riconoscere che qualcuno in passato ha fatto cose sbagliate, secondo me sarebbe una bellissima cosa farlo, per la Comunità di San Patrignano. 

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