Le “zone d’ombra” del terrorismo non si diradano con le ricorrenze

Le “zone d’ombra” del terrorismo non si diradano con le ricorrenze

Di tutto l’armamentario ricorrenziale, quella di oggi 9 maggio, Giornata delle vittime del terrorismo, è forse la data più insopportabile e più inutile. Perché gronda falsità istituzionale. Ogni anno, inesorabile, il copione prevede la visita in via Caetani, luogo del ritrovamento della Vittima per antonomasia, Aldo Moro, le corone di fiori, il silenzio compunto, il Capo dello stato di turno, ingobbito, che si raccoglie in preghiera, ultimamente in mascherina; poi tutti alla Camera, presidenti di questo e di quello a dire, davanti ai parenti dei caduti, che bisogna fare chiarezza, che ci sono ancora troppe zone d’ombra. Chiarezza dopo quaranta, cinquanta anni? Lo dicono sapendo di mentire, l’esatta traduzione della loro retorica ammuffita è la seguente: passa il tempo, i reduci muoiono, le zone d’ombra affogano nel confortevole oblio. Zone d’ombra per dire, anzi per non dire, i torbidi italiani che non si vogliono e non si possono raccontare. Se si pensa che proprio su Moro le cose che non si sanno, che non tornano sono più di quelle dimostrate. Come mai in via Caetani? Davvero ce l’avevano portato da via Montalcini? Ma quando mai, l’ultima reclusione dello statista democristiano stava a due passi da via Caetani, “nella zona del ghetto” (ebraico), in posizione confortevole per spostare il cadavere a poca distanza. Così come per anni ci si sforzò di credere, ma nessuno ci credeva davvero, alle versioni dei brigatisti, in cinque a proporle, in cinque a discordare, sui covi precedenti: Moro catturato in via Fani e di lì portato nella lontanissima via Montalcini dopo un contorto trasbordo fra casse di legno e cambi di veicolo in un parcheggio sotterraneo della Standa in via Madonna del Cenacolo? Con l’intera città sulle tracce dei rapitori?
E invece no, Moro da via Fani, sulla quale le “zone d’ombra” restano pesantissime, fu subito portato nella vicinissima via Massimi, sulla Balduina, in un appartamento di proprietà dello Ior e frequentato, tra gli altri prelati, dal cardinale mafioso Marcinkus, il cardinale con la pistola boss dello Ior. Di qui una via crucis di rifugi, di covi fino a via Montalcini e all’ultimo nel ghetto ebraico. Non sono dietrologie o ricostruzioni fantasiose, sono risultanze ormai acquisite dopo 5 processi e 2 commissioni d’inchiesta, che peraltro hanno risolto poco e a loro volta sono annaspate nelle “zone d’ombra”, nelle censure di stato. Sappiamo che il famoso memoriale Morucci-Faranda, che per anni ha marcato la verità del potere, sia pure per bocca di due terroristi, fu in realtà concordato con settori della DC facenti capo all’onorevole Piccoli e veicolato a Cossiga tramite una monaca, suor Teresilla Barillà, referente dei Servizi. E sappiamo che il memoriale Moro, ritrovato solo in copia e monco, in due occasioni nel covo di via Monte Nevoso a Milano, la prima nel 1978, la seconda nel 1990, era stato reperito dagli uomini scelti del generale Dalla Chiesa il quale fu solerte nel consegnarlo prima ad Andreotti e poi a ritornarlo, purgato, nella disponibilità della magistratura. Cosa che non lo salvò dal finire ammazzato dalla mafia quattro anni dopo a Palermo.
Dalla Chiesa, a proposito. Dicono i presidenti di questo e di quello: lo stato non si piegò, fece fronte comune e sconfisse il terrorismo. E qui la balla è sesquipedale e offensiva. Lo stato trattò e come, sia pure di nascosto, sia pure come poteva. Ma Moro era già cadavere dal 16 marzo e forse da quattro anni prima, quando in visita ufficiale in America si sentì dire dal segretario di stato Kissinger: o col tuo lodo che agevola i terroristi palestinesi la smetti o noi faremo smettere te. Sulla fine del presidente DC le avvisaglie furono infinite: voci, scritte, circostanze, perfino un fumetto, sulla rivista filoterrorista “Metropolis”, che anticipava minuziosamente i dettagli della sua prigionia. E, alla vigilia dell’operazione in via Fani, quelle allusioni si moltiplicarono ovunque, nelle aule scolastiche, negli atenei, nelle fabbriche, Renzo Rossellini, su Radio Città Futura poteva dire con una sola ora di anticipo “stamattina rapiscono Moro” e tutti lo sentono ma nessuno fa niente. E quando lo convocano, gli lasciano licenza di prendere in giro gli inquirenti: “Ma io ho avuto una sensazione, una premonizione”. D’accordo, vada pure.
Lo stato che faceva fronte, non si sa contro cosa, i terrorismi rossi e neri li aveva assecondati, orientandoli a suo comodo, fino a quando non si accorse che non era più in grado di sfruttarli ma ne veniva travolto; per tutti i 55 giorni del sequestro, in duecentomila tra tutti i corpi di sicurezza del Paese non cavano un ragno dal buco, la gestione del ministro di polizia Cossiga è fallimentare ma due anni dopo eccolo di nuovo in sella, al governo, in attesa di diventare presidente dello stato “coeso”, sì, ma nella menzogna. Tra le zone d’ombra anche il ruolo della P2, massoneria deviata che per qualcuno era la fonte di ogni male e per altri una innocua confraternita di rimbambiti. Ma il suo Venerabile, Licio Gelli, al centro di ogni traffico infame, era davvero il suo vertice? O era solo il punto di intersezione delle due “piramidi rovesciate” come le vedeva Tina Anselmi? Oggi un libro appena uscito arriva a ridimensionare da burattinaio a burattino il ruolo del faccendiere aretino, laddove il vero Grande Vecchio della Loggia sarebbe stato l’Eugenio Cefis a capo della Montedison.
Sta di fatto che l’operazione Moro, secondo il consulente cossighiano Steve Pieczenick, venne orchestrata dalla Cia con sapiente lavorio di manipolazione delle BR il cui capo Moretti sarebbe stato largamente permeabile, insomma una spia a sua volta. E qui, altro che zone d’ombra! Una foresta di ombre di spettri, ciascuno inquietante e terrificante. E questo carnevale macabro di ombre lo si dirada con gli appelli retorici ogni 9 di maggio?
Ma diciamola, almeno noi, qui, come va detta. Dopo Moro, sentendosi in balia di una eversione ormai incontrollabile, lo stato seppe davvero ritrovare compattezza nel blindarsi: reagì in modo freddo, micidiale, consegnando pieni poteri al generale Dalla Chiesa il quale risolse la faccenda con militare efficienza. In pochi mesi dislocò i suoi uomini, scelti tra i vari corpi e con unico vincolo a lui, nei punti nevralgici del sovversivismo; quando occorreva con la meticolosa pazienza di via Monte Nevoso, tenuta calda per 4 mesi, altrimenti con brutale pragmatismo come in via Fracchia, dove non furono fatti prigionieri. Parallelamente, Dalla Chiesa procedette con una cosa semplicissima, l’anagrafe degli affitti, da cui potevano emergere le irregolarità in cui versavano certi personaggi sospetti riconducibili alle formazioni dell’antistato che difatti, private della possibilità di occultarsi, di organizzarsi stabilmente, cominciarono a franare. Non meno abile fu la gestione dei terroristi arrestati, le cui contraddizioni venivano sfruttate psicologicamente per indurli a confessare, a rivelare, dosando bastone e carota, incoraggiando le dissociazioni. Ma non ci si venga a parlare di stato compatto e trasparente! Se solo in via Gradoli, dove si nascondevano, per così dire, il capo Moretti e la Barbara Balzerani, il loro covo, come pressoché tutte le altre abitazioni della strada, erano possedute da fiduciarie dei Servizi.
Pochi sanno quante sono le vittime di quegli anni che i nostalgici opportunisti definirono formidabili: 200 individuali, 156 per stragi, oltre a tremila feriti, spesso inguaribili. Una guerra a bassa intensità che così bassa non era e della quale davvero non si capivano le ragioni: lo stato repressivo teneva il guinzaglio lunghissimo ai coaguli sanguinari, li processava e spesso li assolveva, chiudeva gli occhi sui professorini febbricitanti di odio, sulle sommosse nelle università e nelle scuole, sui raduni dove si inneggiava alla lotta armata e alla vittima del giorno. Si puntava a una società arcaica, di tipo cinese o cubano, senza vedere che la rivoluzione era già arrivata ma quella tecnologica, dei robot, delle linee produttive automatizzate, che mettevano fuori gioco una classe operaia che di fare la lotta di popolo non aveva nessuna voglia.
In quaranta e passa anni di commemorazioni, quasi tutti i parenti di vittime si sono trovati una missione, un mestiere che consiste appunto nel campare da parente di vittima: molti nelle istituzioni, nei giornali, nelle case editrici, pochissimi quelli come Massimo Coco, figlio del magistrato Francesco abbattuto dalla BR a Genova nel 1976, che si è sempre fatto i fatti suoi e quelli così li chiama “viptime”. Ma la dignità è come il coraggio di don Abbondio, se uno non ce l’ha non se lo può dare. Il patto dello stato, con lo stato, è multiforme. Alle vittime dice: non rompete i coglioni e io ti ricompenserò; agli storici del terrorismo chiede di adeguarsi alle versioni ufficiali che affondano nelle “zone d’ombra”; ai terroristi propone di tacere, di mentire e in cambio li libera anzitempo, ne fa dei martiri, a volte se ne fa incistare infilandoli, incredibilmente, nelle sue stesse istituzioni. Incredibilmente fino a un certo punto se è vero che Mino Pecorelli, il giornalista spione che sapeva tutto, e lo sapeva sempre in anticipo, aveva profetato: “Un giorno verrà un’amnistia a tutto lavare, tutto obliare”. È morto ammazzato anche lui, un anno dopo via Fani, mentre si accingeva a nuove rivelazioni devastanti sulle “zone d’ombra”, sul ruolo dell’ambigua sfinge Moretti, sulle troppe coincidenze, sui covi ballerini e sulla compattezza di uno stato che compatto lo era solo nella mistificazione. I terroristi sono stati tutti liberati presto, anche quelli con sei o sette ergastoli, riciclandosi fisiologicamente nella società e spesso nel potere con ampia facoltà di mentire in combutta con quello stato che volevano abbattere.

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