L’export cinese in agosto: più 25%. L’isolamento di Pechino, preteso dagli Usa, è un flop. E per Draghi la Cina non è vicina

Da anni, prima con Donald Trump e ora con Joe Biden, la prima parola d’ordine degli Stati Uniti in politica estera è sempre la stessa: «Contenere l’espansione della Cina». Risultato? Un flop clamoroso. A certificarlo, basta un solo numero: in agosto, l’export della Cina è aumentato del 25%. Un dato clamoroso, che fa seguito al più 19,3% di luglio e al più modesto 17,1% previsto dagli analisti. Che il tentativo di isolare Pechino, predicato dalla Casa Bianca, non abbia trovato ascolto nel resto del mondo, tranne poche eccezioni, lo confermano anche le importazioni cinesi: più 33,1% in agosto, dopo il più 28,1% di luglio. Il saldo della bilancia commerciale di Pechino rimane tuttavia in forte attivo, con un surplus di 58,3 miliardi di dollari, superiore a quello di 56,6 miliardi dell’agosto di un anno fa.

Dall’analisi delle statistiche, secondo l’Huffingtonpost, il principale mercato di esportazione della Cina sono stati proprio gli Stati Uniti, che in agosto hanno acquistato merci cinesi per 51,7 miliardi di dollari, in testa l’elettronica, i prodotti high-tech come smartphone, tablet e smartwacht, e l’abbigliamento. Il tutto in un contesto tutt’altro che facile: a causa del Covid-19, nei mesi scorsi la Cina ha imposto il lockdown in diverse città e chiuso un settore del porto di Ningbo-Zhoushan, terzo scalo per container più grande del mondo, con una capacità operativa di 78 mila container al giorno.

Per una singolare coincidenza, questi dati sono usciti nello stesso giorno in cui il presidente cinese, Xi Jinping, ha accettato di dialogare al telefono con il premier Mario Draghi, presidente di turno del G20, circa l’ipotesi di una riunione straordinaria dello stesso G20 sull’Afghanistan, tornato dal 15 agosto nelle mani dei talebani, con tutto il carico di problemi già noto che ne è seguito, dagli aiuti umanitari al contrasto del terrorismo. Ovviamente un G20 da tenere, nelle intenzioni di Draghi, con il contributo di tutti i paesi membri, soprattutto Cina e Russia, che fin da subito hanno dimostrato di poter dialogare con i nuovi padroni di Kabul.

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Gli ostacoli incontrati dal premier italiano si sono rivelati, però, superiori alle previsioni. All’inizio, Draghi era convinto di organizzare il G20 straordinario in tempi rapidi, a metà settembre. Obiettivo rivelatosi impossibile. Joe Biden, di fronte alle critiche ricevute dal mondo intero per la disastrosa ritirata da Kabul, ha preteso e ottenuto che si tenesse prima un G7 via web, per concordare una posizione comune Usa-Ue. Fatto, ma con risultati modesti. Poi Draghi ha parlato con Vladimir Putin e con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, i quali si sono dichiarati disponibili, ma hanno posto come condizione che l’Italia indichi prima, in un documento scritto, gli obiettivi concreti del G20. Di questo documento, per ora, non vi è traccia.

Per ultimo, dopo ben tre settimane dall’invito, anche Xi ha accettato di parlare con Draghi. E il dialogo, a giudicare dai contenuti (diffusi più da Pechino che da Roma), non sembra che sia stato dei più facili. Tanto che il Corriere della sera, per definire la riposta di Xi Jinping all’invito al G20 straordinario, scrive che si è trattato di «un assenso, o forse sarebbe meglio dire un mancato diniego». Xi, infatti, si è detto sì disponibile a lavorare insieme per l’iniziativa, ma ha chiesto «concretezza», ponendo una serie di condizioni, alcune a dir poco imbarazzanti per Draghi, delle quali non c’è traccia sui media mainstream.

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Ben più informato e dettagliato il servizio che l’emittente tv cinese dello Stato, China Central Television, ha dedicato all’evento. Il presidente Xi ha sottolineato soprattutto due aspetti politici: ha auspicato che il G20 di Roma aderisca «al vero multilateralismo»; inoltre che l’Italia svolga un ruolo attivo nel promuovere «lo sviluppo sano e stabile delle relazioni Cina-Ue». Traduzione del primo punto: basta con il bilateralismo Usa, mirato contro la Cina. Quanto al secondo, è l’invito a riportare in vita l’accordo Cina-Ue sugli investimenti, siglato a fine dicembre 2020 da Angela Merkel e Xi, ma poi accantonato per l’opposizione di Biden. Di fatto, una richiesta quasi provocatoria per Draghi, noto nel mondo intero per essere un atlantista di ferro, con legami personali molto stretti con i leader Usa, Biden compreso, perciò considerato piuttosto tiepido circa lo sviluppo dei rapporti con la Cina, a cominciare da quelli economici.

Ma anche su questo versante, riferisce la tv cinese di Stato, il presidente Xi ha auspicato che «le due parti, Italia e Cina, dovrebbero prendere la costruzione congiunta della cooperazione Belt and Road come guida per promuovere una solida cooperazione in vari campi». In altre parole, la Cina chiede a Draghi di attuare il memorandum sulla Nuova Via della Seta, firmato a suo tempo dal governo di Giuseppe Conte. Il tutto senza dimenticare alcune scadenze, come «l’Anno della cultura e del turismo Cina-Italia, da organizzare congiuntamente nel 2022», ma anche «le Olimpiadi invernali di Pechino e le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, da organizzare con un sostegno reciproco, per rafforzare la cooperazione negli sport e nelle industrie sul ghiaccio e sulla neve tra i due Paesi».

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Al termine della telefonata, durata 45 minuti, Xi ha chiesto a Draghi di porgere i suoi calorosi saluti al presidente Sergio Mattarella. E l’Afghanistan? Su questo la Cina non ha scoperto le carte. Forse lo farà al G20, rinviato a fine ottobre, in sessione ordinaria, conclusiva della presidenza italiana. L’ennesima conferma che, anche con Draghi, il peso dell’Italia nella politica internazionale non è quello di un leader, ma di un fedele gregario.

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