Nella caduta dei Cinque stelle c’è il riflesso della loro storia

Nella caduta dei Cinque stelle c’è il riflesso della loro storia

Il Movimento 5 stelle è passato attraverso tre fasi: quella ecologista-tecnocratica, quella populista-antiestablishment e, quella proto-laburista. La prima fase si svolge tutta all’opposizione, la seconda in vista dell’assalto al palazzo d’Inverno e la terza dentro le istituzioni. A queste diverse fasi sono corrisposti diverse modalità organizzative.

Gli inizi

La prima fase è fluida, fondata sui meet up – luoghi di aggregazione locale senza alcuna strutturazione né controllo dall’alto –  e dominata dalla figura carismatica del leader fondatore, unica stella polare del movimento. I temi fondanti di questi primi passi sono di impianto ecologista-libertario con una enfasi crescente sul tema della democrazia diretta.

C’è una simbiosi tra la scoperta delle potenzialità comunicative della rete e l‘utopia di un pan-partecipazionismo a 360 gradi. Non è un caso che nel 2010, nel primo importante test elettorale delle liste Cinque stelle in alcune regioni, i voti vengano da componenti giovanili e acculturate concentrate in aree, in ispecie lungo la via Emilia, in Emilia-Romagna, dove sono particolarmente sviluppate le occupazioni in settori ad alto contenuto tecnologico.

Il segno di Casaleggio

Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo (Foto LaPresse)

L’imprinting di Gianroberto Casaleggio in questa prima fase è molto forte e, non a caso, la società e poi la fondazione create per sviluppare la partecipazione cittadina si ispira al teorico della volontà generale e all’ideale ginevrino di democrazia diretta, Jean Jacques Rousseau.

I primi successi del neonato Movimento 5 stelle rimangono comunque confinati nell’alveo delle constituency post-materialiste, insofferenti e  ipercritiche nei confronti delle classi dirigenti. Nulla di molto diverso da quanto visto con le liste “left-libertarian” in Europa negli anni Novanta.

L’antipolitica

Il passaggio verso la fase populista-antiestablishment, già insito nella celebre manifestazione del Vaffa-day del 2007, avviene in connessione con la crisi finanziaria di fine decennio e il programma di austerity del governo Monti.

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Da un lato, i temi delle 5 stelle, come ad esempio l’acqua pubblica, entrano nell’agenda politica nazionale con il vittorioso referendum del 2011 su questo tema  (benché non fosse stato promosso dai grillini).

Dall’altro, i drastici provvedimenti presi da un governo tecnico innfiammano la protesta antipolitica e antiestablishment del M5s. Con un curioso paradosso: la critica antipolitica viene indirizzata verso il governo Monti in quanto espressione tecnocratica e non di volontà politica. E da qui tutti i complottismi sui poteri forti, il gruppo Bilderberg, Bruxelles, la finanzia internazionale e così via.

Una domanda di cambiamento

Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista in motorino (foto LaPresse)

Questa critica antipolitica raggiunge l’acme con la nuova ondata di scandali di corruzione politica (i diamanti della Lega, Mafia capitale) e con l’ulteriore governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta dopo le elezioni del 2013.

Questa tensione antiestablishment è mantenuta ai livelli massimi nel corso della legislatura grazie all’emergere di una giovane “classe dirigente”, quella dei Luigi Di Maio e degli Alessandro Di Battista – e di tanti altri – conseguente al passo indietro di Grillo e alla scomparsa di Casaleggio.

La competizione tra Matteo Renzi e il i nuovi dioscuri pentastellati, in parte ascrivibile a una disfida tipicamente giovanilista (un unicum nella storia politica repubblicana) trova il suo momento catartico nel referendum costituzionale del 2016 dove il M5s raccoglie il frutto di una campagna elettorale città per città.

Questa campagna elettorale all’antica, comunque innervata da un uso massiccio della rete, si innesta sulle vittorie di Torino e Roma dove due giovani donne conquistano la poltrona di sindaco. E questo invia un messaggio chiaro benché non  colto da quasi nessuno: l’insoddisfazione che circola nell’opinione pubblica e la domanda di cambiamento, anche di personale politico, hanno trovato un loro rappresentante.

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La svolta

Il successo del 2018 si colloca a metà strada tra la seconda e la terza fase. Il reddito di cittadinanza – tema classicamente laburista – è un grande vettore di consensi, ma l’elemento populista-antiestablishment continua a risuonare forte nel messaggio pentastellato, tanto da arrivare alla proposta di impeachment del presidente della Repubblica nel corso del tormentato inizio di legislatura. 

Questa propensione vale per tutto il periodo del governo gialloverde, dove il M5s patisce la sua inesperienza e subisce la trazione salviniana. Fino all’estate del 2019 quando, d’improvviso, si rivela che il re (Conte) non è nudo, bensì vestito di una corazza tale da gettare nella polvere il capitano leghista.

La fase proto-laburista

La fase proto-laburista del M5s è rafforzata dall’alleanza con il Pd. Dismessi i temi securitari dell’alleanza con Salvini, emergono quelli sociali che trovano ulteriori declinazioni nel corso della gestione della pandemia.

Questa evoluzione, lenta e contraddittoria, ma certo favorita dal ruolo maieutico che pazientemente il Pd esercita sul M5s, è interrotta dalla crisi del governo Conte 2.

Il processo di istituzionalizzazione del partito, che ha nel voto alla nuova Commissione europea e soprattutto nella promozione degli interventi di sostegno dell’Europa durante la pandemia, e nella redazione del Next generation Eu, i suoi punti forti, non trova un punto di equilibrio interno, le cui modalità organizzative rimangono a lungo incerte e indefinite.

I nove punti

Infine, a cascata, arrivano la perdita di centralità, i problemi di successione di leadership, l’inesperienza politico-partitica di Conte, la rottura con Casaleggio-Rousseau, le irruzioni a corrente alternate del garante Grillo, le ambizioni personali, la gestione di gruppo parlamentare ipertrofico a portare alla crisi attuale del M5s. 

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Ma se si vuole puntare l’attenzione sugli eventi di questi giorni, bisogna riconoscere che i nove punti presentati da Conte a Draghi come elementi caratterizzanti del partito non sono bizzarrie o escamotage dell’ultimo minuto ma riflettono un’evoluzione di lungo periodo del M5s contiano, tra l’altro in linea con la sua cultura politica.

Alla fine sono comunque venuti al pettine più le carenze organizzative di un partito cresciuto a dismisura e in-gestito che le sue deficienza culturali, peraltro non dissimili, quanto a contraddittorietà e debolezza, da molti altri partiti.

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