Oroscopi e algoritmi predittivi: così abbiamo trasformato il calcolo in “feticcio”

Cosa accomuna gli oroscopi agli algoritmi predittivi/di raccomandazione? Molto più di quanto si potrebbe immaginare. E c’è una relazione tra magia e algoritmi, ovvero calcolo ed esattezza? Sì, la relazione è strettissima. In entrambi i casi, il calcolo e la matematica (oggi incarnati negli algoritmi) e ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo – cioè esattezza, precisione, scientificità, inoppugnabilità – hanno oggi assunto una dimensione appunto magica, comunque feticistica – e il feticismo ha appunto molto (o tutto) a che fare con magia e irrazionalità.

Scienza e anti-scienza degli algoritmi

Scienza e anti-scienza si ritrovano cioè nello stesso luogo, e la scienza degli algoritmi può diventare – è già diventata – una sorta di fede religiosa integralistica e quindi totalmente anti-scientifica per cui però tutto è algoritmo, niente è al di fuori degli algoritmi, non avrai altro Dio che un algoritmo. Un paradosso? No, perché riguarda molto la psiche umana, sempre divisa tra realtà e sogno, tra libertà e assoggettamento/servitù volontaria, tra razionalità e irrazionalità, tra realtà e apparenza, tra incertezza e bisogno di certezze. E quanto più la vita si fa incerta e il sistema si fa sempre più disruptivo come oggi in questa modernità neppure più liquida (secondo la definizione di Bauman), ma gassosa, tanto più hanno buon gioco gli algoritmi e i social a decidere al posto nostro della nostra vita, offrendo certezze e sicurezza, previsione e fiducia, socialità e spirito di gruppo. Cioè gli algoritmi sono costruiti un po’ come gli oroscopi e l’astrologia, offrono certezze ad esattezza, ma possono essere in realtà ricchi di bias ed essere fuorvianti perché finalizzati solo alla massimizzazione del profitto (privato) di chi i produce. Ma procediamo mettendo un po’ di ordine alla questione, provando ad offrire qualche certezza….

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Astrologia e oroscopi e feticci

L’astrologia, dunque, ovvero “lo studio degli astri in base al principio di una corrispondenza tra universo stellare e universo psichico” dell’uomo; “per cui diventa possibile, conoscendo i movimenti del primo, dedurre o addirittura predire i movimenti del secondo”[1]. L’astrologia fu ovviamente attaccata dalla modernità che si basa sulle scienze esatte e su quella matematica che presiede al movimento esatto e scientifico degli astri. In realtà, “la radice antica delle corrispondenze astrologiche, lungi dall’estinguersi, si è diffusa a livello di senso comune”, l’astrologia divenendo, nella interpretazione di Carl Gustav Jung, “uno schermo proiettivo in cui, a livello individuale e collettivo si rende conscia la motivazione inconscia dell’interpretazione di sé”, ovvero è un modo per riferire alle stelle e alle loro raffigurazioni la propria interiorità, cercando conforto a buon mercato, leggendo ogni giorno con passione il nostro oroscopo semmai facendo finta di non crederci.

A sua volta, l’oroscopo è appunto – o meglio sarebbe – l’immagine della personalità di un individuo, “dedotta dal rapporto tra la nascita e determinate configurazioni astrali”[2] presenti nel momento della nascita che determinerebbero appunto il carattere di una persona.

Inutile dire che nonostante la loro irrazionalità, gli oroscopi e l’astrologia ci catturano abbastanza (o molto) facilmente. Ci catturano perché hanno il fascino di dirci o di confermarci in ciò che siamo o crediamo di essere, perché solitamente guardano e sottolineano soprattutto gli aspetti positivi della nostra personalità (non ci piacciono le negatività, il sistema ci vuole sempre proattivi e insieme reattivi, la tristezza è bandita dagli oroscopi che cercano sempre di riaffermare i caratteri standard del segno zodiacale di interesse). Perché sono un genere di conforto mentale. Irrazionale, ma ciascuno di noi ha in sé appunto anche una componente irrazionale.

“A questo scopo” – scriveva nel 1962 il filosofo francofortese Theodor W. Adorno (1903-1969) – “l’astrologo fa assegnamento su una forma stereotipata di comportamento” umano, perché “le persone portate a credere nell’astrologia sono solitamente pronte a inserire le informazioni di cui sono in cerca, nel proprio sistema, siano esse esatte o meno”[3]. Si innescherebbe cioè una sorta di sistema autoreferenziale e a riproducibilità infinita, dove importante è non contraddire la realtà del lettore, ma confermarla ogni volta, appunto perché questo dà sicurezza e l’oroscopo è un placebo non pericoloso, sufficientemente generico da poter dire tutto e il contrario di tutto – ma di dirlo così bene da renderlo credibile e verosimile-quasi-vero. Ovvero, ancora Adorno, l’autore dell’oroscopo “può parlare impunemente, finché sa adattarsi abilmente agli effettivi bisogni e desideri dei suoi lettori […] distribuendo a piene mani gratificazioni immaginarie”.

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E cioè, “il profitto psichico che ogni lettore” trae dall’oroscopo consiste in una promessa di aiuto e lenimento a opera di una istanza sovrumana. L’obbedienza nei confronti dell’oroscopo gli risparmia la fatica di comportarsi come un essere autonomo: può consolarsi pensando che il destino lo scarica della propria responsabilità. L’oroscopo è rivolto a lettori che sono, o si sentono, in una condizione di dipendenza. Presuppone un Io debole, e una reale impotenza sociale[4]. Di fatto, gli oroscopi sono fatti per far accettare il destino scritto nelle stelle, cioè per riprodurre quel sano (o insano?) buon senso che accetta i valori sociali così come sono, perché “i messaggi dell’oroscopo non annunciano null’altro che lo status quo”, dove però “l’unico criterio da attivare ogni volta nel lettore è quello di perseguire il successo[5].

Ultima digressione: il feticismo. E il feticcio: ovvero “un oggetto investito di significato simbolico a cui viene generalmente associato un potere magico o una forza spirituale”, divenendo oggetto di culto. Di solito sono scarpe, indumenti intimi, piedi, certi mistici religiosi[6]. Ma sono stati feticci anche certi pc, lo sono ancora certi smart-phone, certi social, è stato un feticcio-guru Steve Jobs e lo è ancora, pur tra alti e bassi Mark Zuckerberg – e poi Elon Musk un feticcio (un visionario) che però voleva bombardare Marte con le atomiche per renderlo simile alla Terra (sic!).

Astrologia, oroscopi, feticci – e algoritmi

Oggi anche gli algoritmi sono diventati feticci da adorare; sono meglio degli oroscopi perché ricostruiscono e convalidano/conformano il carattere dell’individuo sulla base dei dati che questi lascia in giro per la rete e che vengono abilmente catturati e messi a profitto dal tecno-capitalismo; sono meglio dell’astrologia perché più esattamente di questa sanno stabilire la relazione tra universo virtuale e universo psichico dell’uomo, per cui diventa possibile, conoscendo i movimenti mentali e fisici dell’individuo nell’universo virtuale, dedurre o addirittura predire i movimenti e i comportamenti del secondo, cioè dell’universo psichico dell’uomo. Questo sono gli algoritmi predittivi/di raccomandazione, gli algoritmi di filtraggio, di apprendimento, di valutazione. Anche gli algoritmi hanno creato e creano una nostra condizione di dipendenza e insieme di delega ad essi (facciamo ciò che gli algoritmi ci dicono di fare e come farlo), rinunciando al libero arbitrio. E gli algoritmi (fatte salve le doverose eccezioni per quanto riguarda la conoscenza, la ricerca, la medicina e la cura eccetera) sfruttano – per il profitto di chi li produce e ci induce ad usarli sempre di più – un Io debole e portato a credersi socialmente e culturalmente impotente. Si offrono come aiuto, rendendoci sempre più incapaci di valutare e decidere autonomamente. Il sapere aude! dell’illuminismo è stato travolto dagli algoritmi.

E dopo questa lunga introduzione, veniamo a un libro importante, uscito da poco: “Big data e algoritmi. Prospettive critiche”, scritto da Teresa Numerico che insegna Logica e Filosofia della scienza all’Università di Roma Tre[7].

Big data e algoritmi

Un libro importante. Perché volutamente scritto dall’Autrice “pensando alle generazioni che verranno”, pensando a quella attuale (i nativi digitali o meglio: digitalizzati) che non conosce altra realtà che quella digitale. “Una generazione che cioè non può scegliere se cedere o meno i propri dati a una o più piattaforme, che non può ricordare com’era la vita quando non era completamente tracciata al fine di estrarre valore da essa”. Un libro scritto pensando ai giovani di oggi e a quelli che verranno, “perché decidano liberamente che cosa fare delle loro tracce digitali; perché governino il modo in cui sono usate; perché si rendano conto che la sorveglianza non è un destino e comprendano che un algoritmo è soltanto una linea di istruzioni per portare a termine un compito: obiettivi, regole e scorciatoie le decidono i programmatori”.[8] Quindi se dovessimo pensare e vivere “ritenendo che i suggerimenti offerti dagli algoritmi predittivi non siano altri condizionamenti” – oltre a quelli che costruiscono i nostri rapporti sociali e di lavoro – “e ci sottomettessimo completamente alle loro indicazioni, non avremmo nessuna possibilità di costruire la nostra voce, di scoprire le nostre preferenze[9]” e rimarremmo chiusi in un sistema di conformazione/conformismo questa volta algoritmica, cioè di eteronomia algoritmica e inconsapevole, invece di autonomia responsabile e consapevole.

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Sottrarre all’umano la sua instabilità” – questo promettono certi algoritmi, questo cercano i produttori di algoritmi: la prevedibilità dei comportamenti umani, la loro standardizzazione – “rischia di renderlo incapace di reagire quando le condizioni esterne mutano; mentre è proprio questo che gli permette di sviluppare una reattività dinamica all’ambiente e la flessibilità per vivere in qualsiasi condizione”. E invece la tecnologia cerca di ottenere risultati che siano funzionali agli obiettivi che si prefiggono i suoi realizzatori e finanziatori, “prescrivendo il futuro che presumono di prevedere”. Poiché gli algoritmi hanno in sé la capacità e la possibilità di misurare (ancora la matematica come ideologia del mondo) ogni cosa – sono cioè la sublimazione di quella che chiamiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale e capitalistica – cioè di “schiacciare il futuro sul passato e il comportamento del singolo su quello della categoria di appartenenza e di modellare continuità e cambiamento in un orizzonte di ripetizione. Il verificarsi della previsione presuppone l’immobilità dell’esistenza di chi è oggetto del giudizio”[10]. Ovvero creatività, discontinuità, eccentricità, libertà sono un intralcio alla matematizzazione del mondo e della vita e devono essere ricondotte a normalità algoritmica, a conformazione algoritmica, a uni-dimensionalità algoritmica. Altro che libertà in rete…

Data science?

Un libro – quello di Teresa Numerico – “che non è una critica agli algoritmi di per sé ma all’illusione che dati e algoritmi possano, in qualsiasi contesto, fornire una rappresentazione dei fenomeni attraverso l’individuazione di correlazioni, regolarità e normalizzazioni più affidabile e precisa di altri metodi di osservazione, astrazione e intervento”[11]. E invece la data science dilaga ovunque e in qualsiasi contesto, è insegnata nelle università e usata dal potere, rappresenta la frontiera più promettente per l’intelligenza artificiale (che Teresa Numerico scrive in minuscolo, avendo il nostro più totale apprezzamento), dimenticando che suo compito “non è tanto spiegare i dati, fornendo un modello che ne renda conto, quanto appunto costruire algoritmi in grado di fare previsioni sulla serie futura di quei dati, indipendentemente dalla loro capacità di spiegazione”[12]. I dati stravolgendo così anche la vecchia statistica, orientata invece alla spiegazione dei dati. Ovvero si produce un pensiero meramente calcolante – ancora, la matematica come ideologia – escludendo la spiegazione, cioè un pensiero riflessivo e meditante.

Qualcosa che agli umani piace molto – pensare è faticoso e fa perdere tempo. Agli umani piace anche assoggettarsi a quella che Paolo Zellini definiva la dittatura del calcolo. Piace perché (sempre Zellini, che cita il poeta Novalis) “l’uomo per pigrizia desidera un puro meccanismo o una pura magia. Egli non vuole essere attivo – non vuole usare la sua immaginazione” – e gli algoritmi incarnano perfettamente le due cose insieme: il meccanismo esatto che diventa anche magia/feticcio della previsione (ben altro e meglio dell’astrologia), perfettamente coerenti con la pigrizia irrazionale dell’uomo. E quindi ci affidiamo sempre di più agli algoritmi, anche quando sono in gioco la giustizia e la tutela dei diritti politici, civili e sociali, dimenticando (sempre per pigrizia?) “che sono agenti artificiali opachi e che aziende private li hanno prodotti a scopo di guadagno”[13].

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Che fare? Cruciale, scrive Teresa Numerico è essere consapevoli “di ciò che sta accedendo nell’implementare l’infrastruttura tecnica rappresentata dalla progressiva automazione della presa di decisione […]. I dispositivi tecnologici che si propongono come forza trasformativa del mondo che li circonda sono sistemi sociotecnici con un diretto impatto normativo sulla società” – dettano cioè le norme di funzionamento della società, organizzandola e governandola in modo del tutto a-democratico, se non deliberatamente anti-democratico (la democrazia ha bisogno di tempo e di riflessione per decidere, gli algoritmi decidono per noi senza riflessione e sempre più velocemente, quindi sono chiaramente a-democratici se non anti-democratici) – “e devono essere invece regolati e governati dalla politica”[14]. Perché “non tutto ciò che è fattibile è legittimo” scrive Numerico – e invece siamo dominati da quel principio di razionalità che già mezzo secolo fa il filosofo della tecnica Günther Anders aveva ben chiarito – ne “L’uomo è antiquato”, Bollati Boringhieri – ovvero tutto ciò che tecnicamente si può fare deve essere fatto. Razionalità tecnica ma anche capitalistica contro la quale è difficile opporsi, anche quando, come oggi, la tecnica e il capitalismo mettono a rischio la libertà dell’uomo e la sopravvivenza del pianeta.

E tuttavia, “non siamo davanti al dissidio se usare o meno le macchine, che sono già parte integrante delle nostre vite, ma dobbiamo scegliere se vogliamo continuare a esercitare la critica sul loro funzionamento o se desideriamo affidarci ciecamente a loro per farci dire cosa fare. Se vogliamo cioè vivere fuori dalla minorità come ci ha promesso la ragione o abdicare, proprio in forza della ragione stessa, all’autonomia critica”. Serve allora, chiude il libro Teresa Numerico, un progetto politico capace di farci usare la tecnologia come un mezzo “e non come una infrastruttura inevitabile, unica, universale e onnisciente”[15]. Giusto, se non ci fosse invece – chiudiamo a nostra volta – una collusione/correità ormai evidente e strutturale/funzionale anche tra potere politico e tecnologia; e se, come umani – per pigrizia – non preferissimo un meccanismo e una magia all’uso della ragione.

Bibliografia

  1. U. Galimberti (2018), “Nuovo Dizionario di Psicologia”, Feltrinelli, Milano, pag. 139 ↑
  2. Ivi, pag. 863 ↑
  3. T. W. Adorno (1976), “Scritti sociologici”, Einaudi, Torino, pag. 148 ↑
  4. Ivi, pag. 149 ↑
  5. Ivi, pag. 150 ↑
  6. U. Galimberti (2018), “Nuovo Dizionario di Psicologia”, Feltrinelli, Milano, pag. 524 ↑
  7. T. Numerico (2021), “Big data e algoritmi. Prospettive critiche”, Carocci Editore, Roma ↑
  8. Ivi, pag. 11 ↑
  9. Ivi, pag. 12 ↑
  10. Ivi, pag. 17 ↑
  11. Ivi, pag. 18 ↑
  12. Ivi, pag. 121 ↑
  13. Ivi, pag. 253 ↑
  14. Ivi, pag. 255 ↑
  15. Ivi, pag. 259 ↑

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