Più che in un Paese siamo in un grande manicomio dove regna l’assurdo e il potere si autogiustifica


Si possono avere opinioni su tutto, divergenti, contrastanti perfino sul famigerato lockdown, poi sbatti in faccia alla realtà e la realtà è quella che è e non pratica sconti. Ci sbatti contro a un grande magazzino dove vendono roba decente a prezzi popolari cioè il massimo che può permettersi la gente dopo tredici mesi che non lavora, non guadagna, ma paga le tasse. Entri, perché puoi ancora entrare: però non ti è concesso comperare niente. Quasi niente. La biancheria sì, le magliette no; le felpe no; i calzoni no; il mangime per gli animali no. C’è il lockdown, ci sono le severe prescrizioni del ministro Speranza, del leggendario Comitato Tecnico Scientifico, appena rinfrescato da Draghi ma con un trapasso dall’Istituto Superiore di Sanità, gira che ti rigira sempre gli stessi sono. Il grande magazzino in realtà è piccolo, uno spazio unico per tutte le merci: qui si esalta la follia di prescrizioni che neanche il Padreterno saprebbe spiegare in punto di logica. Le magliette extralarge per bambinoni robusti sì, le magliette – sullo stesso scaffale, proprio a fianco – di taglia minima per adulti piccolini, vale a dire grossomodo la stessa identica roba, quelle no. Un reggiseno sì, una felpa a mezzo metro no. Un paio di mutande sì, il cibo per cani, proprio di fronte, assolutamente no.
Il primo segno di un regime è la follia. Il secondo è l’adeguamento del popolo a quella follia calata da un cielo di burocrati alienati. Inutile chiedersi che senso abbia, il senso non c’è. Però va rispettato, “queste sono le regole”. Poi ce ne sono altre: il caffè al banco no, fuori dal banco, sulla soglia del bar, va bene. Qui, nel paesello marinaro dove vivo, hanno chiuso un locale perché un povero cristo ci stava mangiando: il gestore sta seriamente pensando di arrendersi, perché oltre al danno emergente c’è la frustrazione, l’umiliazione di dover fallire per una follia. A chi scrive è capitato quanto segue: ordinare un caffè alla cassa, passare al banco, attendere dieci minuti in fila, ritirare il caffè e doverselo sorbire fuori. Dieci minuti dentro al bar, dodici secondi fuori dal bar: tutto in ordine, “queste sono le regole”. Sì, ma la regole ricordano il comma 22, quello per cui chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.
La pazzia genera pazzia, ma genera anche disuguaglianze e corruzioni. Mormora la cassiera a un cliente esterrefatto: “Queste sono le regole, però così chiudiamo; poi ci sono certi negozi dove, pagando chi di dovere, gli fanno vendere di tutto e nessuno controlla”. Ed è proprio così, uno degli effetti di questa isteria da chiusura sta nell’aumento della corruzione locale spicciola, nei favoritismi di paese o di quartiere, in un bar non può entrare nessuno, in un altro, magari malfamato, trovi loschi figuri in capannello, nessuna mascherina, e nessuno li disturba ed è un segnale di impunità, di arroganza mafiosa, spicciola ma mafiosa. Intanto nei borghi e nei villaggi di mare, i più aggrediti dalla serrata, fiorisce una serra di nuove intraprese, di cartelli “prossima apertura” per le attività più disparate, ma improbabili: sono le mafie che investono, marcano il territorio, aprono lavanderie di soldi sporchi. Il crimine organizzato si giova della crisi a oltranza ma di tutto questo sui media di regime non si legge, è considerato un effetto secondario e tollerabile.
Presto al posto del povero magazzino dalla sorte annunciata resterà una viacrucis di serrande sprangate in pasto alla ruggine. O magari sorgerà un night club per entreineuses russe, ucraine, con tutto ciò che di losco ne consegue. Per cosa? Se qualcuno, magari un ministro o un sottosegretario o un virologo da Isola dei Famosi o uno scienziato a gettone, vogliono provarsi a spiegare la correlazione tra sicurezza sociale e impossibilità di vendere una maglietta per adulti mentre una per bambini sullo stesso scaffale sì; se è capace di illuminarci sul modo in cui il virus si espanderebbe a cena ma non a pranzo; se è in grado di fornirci schiarimenti sul prodigioso meccanismo salvifico per cui, invitati a cena, si entra bardati come a Chernobyl, ci si saluta a gomitate, poi ci si siede al desco, ci si sfilano le mascherine, le barriere di plastica e si mangia e beve e ci si parla e ci si respira addosso, dopodiché ci si torna a blindare come a Fukushima; se qualcuno ha voglia di intrattenerci sulla necessità di inforcare una mascherina, che non filtra niente (secondo le ultime rivelazioni della cronaca fra sanitaria e giudiziaria), perfino in riva al mare, soli che più soli non si può, con il cane che trotterella intorno; beh, si accomodi. Tanto non ce la farà, perché l’assurdo per definizione non ha logica tranne quella del potere che si autogiustifica in quanto tale, semplicemente manifestandosi.
Dopodiché, moltiplicate la demenza del centro commerciale per tre virgola quattordici e otterrete lo stato di un Paese che ormai sembra un manicomio. Ieri si è saputo che l’agognato “ritorno alla normalità”, garantito da tutti fino a una settimana fa, non sarà il 7 aprile e neanche il 25 aprile, forse il 2 maggio, più probabilmente a giugno ma chissà. Sine die, sed usque tandem? A questo punto il cronista esce dal magazzino e dà di matto, e quello che gli esce di bocca non si può in alcun modo ripetere qui.

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