Riflessioni dopo il Disabilty Pride

Riflessioni dopo il Disabilty Pride

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La cosa che mi è piaciuta di più dello stare al Disability Pride è stata incontrare tante persone, persone con le disabilità più disparate, sole o accompagnate. C’erano carrozzine manuali ed elettriche, persone con tetraplegia, con  paraplegia, ipovedenti, affetti da autismo, da altre disabilità invisibili come quelle derivanti dal disagio psichico, come la sindrome maniaco depressiva.

Mi è piaciuto tantissimo raccogliere e ascoltare storie, avventure, prendere contatti. Ho invitato Chiara – campionessa italiana 2018 di ballo in carrozzina – a partecipare a uno spettacolo in fase di allestimento con un noto coreografo romano. Ho parlato con Anna che è in carrozzina e ha un sorriso ammaliante. Lei ha fatto da modella a un’amica che ha spedito il proprio progetto di vestito a un premio a Bruxelles. Erano tante le storie, erano storie piene di vita e di slancio.

Io stesso con il mio pregiudizio guardavo al Disability Pride e alla parata di domenica 3 luglio come alla fiera delle sfighe, delle sfortune che possono capitare agli individui. Pensavo alla parata come a un evento un po’ triste, autocelebrativo. Insomma pensavo alla parata come a un momento in cui ci si ripiega su se stessi e non si riesce a guardare al di lè del proprio ombelico. Invece ho visto una bellissima festa con tanta allegria, tanto entusiasmo e tanta gioia di vivere. Ho trovato un’umanità ricca e varia, con bisogni e desideri simili ai miei, con spinte vitali molto forti e potenti. Pensando a tutta questa ricchezza mi sono chiesto quanta responsabilità abbiamo noi persone con disabilità, con difformità rispetto al mondo della cosiddetta normalità, nel non riuscire a creare aggregazione. Mi sono anche chiesto perché non usciamo dalle nostre case, perché non ci assumiamo la responsabilità di uscire nelle strade, di entrare nei luoghi di aggregazione. Perché ci limitiamo a creare i nostri piccoli villaggetti, le nostre piccole riserve indiane, e non usciamo a viso scoperto per le strade.

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Poi ho fatto anche qualche altra riflessione partendo da questo giorno di festa. Ho pensato che non voglio essere incluso in una società che come quella italiana che si trova al 58mo posto per quanto riguarda le libertà di stampa. Una società che nega lavoro ai giovani, che in molti casi non lascia libera scelta alle donne su che cosa fare del proprio corpo, se abortire o procreare. Non voglio essere incluso in un paese che ha come massime preoccupazioni, come recita la stampa mainstreaming, il danno prodotto dal reddito di cittadinanza all’economia piuttosto che la mancanza di voglia dei giovani di lavorare. Senza considerare poi che solo diciannove deputati hanno votato contro l’aumento degli stanziamenti per le armi al 2% del PIL. Ma queste risorse da dove arriveranno? Da quelli che dichiarano le guerre o come al solito da chi le subisce, ovvero le persone comuni? E poi se continuiamo a ritenere il gas un energia verde e ad investirci non continuiamo a dare valuta pregiata a Putin? E sempre a proposito di armi perché solo pochi tra i partiti e nell’informazione  chiedono l’adesione al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari?
Il pensiero è corso anche a quel vizio vile di trattare i giovani come se fossero tutti dei bamboccioni, come se fossero veramente loro la piaga dell’Italia ma ci dimentichiamo che a dichiarare le guerre o a distruggere il Pianeta non sono stati i giovani sono state le precedenti generazioni.

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Gianfranco Falcone

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