Riforma tasse: dietro lo strappo di Salvini la paura di perdere ancora

Penalizzato più di FdI dall’astensionismo nelle urne e assediato dall’ala governista del suo partito, Matteo Salvini si sente prigioniero della ragnatela che egli stesso ha tessuto. Ha di fronte due settimane decisive per la battaglia dei ballottaggi, sul collo il fiato di Giorgia Meloni che invoca ranghi serrati e Silvio Berlusconi che incombe. Strappa: ordina al suo Garavaglia di lasciare la cabina di regia e disertare il consiglio dei ministri che vara (comunque) la delega fiscale con l’ipotesi di riforma del catasto. Difficile non leggere la mossa come reazione al tracollo delle comunali: “I cittadini si sono astenuti perché la politica si occupa di massimi sistemi, ma se entra nei problemi a gamba tesa non riavvicina la gente al palazzo”.

E’ un déja-vu di aprile, quando i tre ministri leghisti si astennero sul decreto riaperture e coprifuoco Covid suscitando l’ira di Draghi. Per la prima volta, però, oggetto delle critiche è direttamente il premier, il suo operato e il suo “metodo”. Il Capitano alza il tiro. Si erge a difensore dei tartassati dalle imposte, per quanto Draghi garantisca che “nessuno pagherà di più”: “La Lega non vuole nuove tasse, gli altri ministri ci danno ragione nei corridoi ma chinano il capo”. C’è un tema di contenuto: “Non c’è quello che era negli accordi, l’impegno era tagliare le tasse”. Loro non daranno una “delega in bianco” – o peggio un “assegno in banco” – su cui il Parlamento può solo esprimere parere non vincolante: Imu, Iva, flat tax per le partite Iva. Troppa carne al fuoco, tutto troppo vago. Il leader leghista lascia cadere lì che del premier “si fida” ma tra sei mesi o un anno – chissà – potrebbe esserci qualcun altro a Palazzo Chigi. Sarà casuale, ma la deadline non è la scadenza naturale della legislatura.

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Silenzio ufficiale di ministri e sottosegretari. Non sarebbe comunque il momento di distinguo. E c’è un problema di metodo: “Non possiamo avere alle 13,30 un testo da varare alle 14, in mezz’ora. Non è l’oroscopo” protesta Salvini. Nelle file leghiste puntano il dito contro la presidenza del consiglio, il sottosegretario Garofoli: “Se il ministro dell’Economia Franco dice che è la legge più importante degli ultimi 50 anni, non può arrivarci un’ora prima. Il vulnus nasce da lì”. Mugugni che chiedono “più rispetto”, paura di contare fino a un certo punto.

Draghi ha reagito gelido, tirando dritto: “Salvini spiegherà i suoi motivi”. L’interessato, centrato l’obiettivo di visibilità, minimizza: “Strappo? No, serve un chiarimento”. I titoli di giornali e tg sterzano, l’autocritica alle comunali, la débacle di Milano passa in secondo piano. Come la “politica dei piccoli passi” per cui hanno preso 59 sindaci e 300 consiglieri comunali in più. Travolti, anche loro, dal ballon d’essai della crisi di governo che non c’è. “Se Salvini uscisse farebbe un favore doppio – ragiona un forzista di rito draghiano – A noi e ai centristi perché ci consegnerebbe il voto dei moderati. E a FdI che potrebbe dire: avevamo ragione sin dall’inizio”. Ecco perché pochi scommettono sulla rottura. Il capogruppo alla Camera Molinari lo dice apertamente: “Stiamo al governo, ma vogliamo incidere di più. Nell’esecutivo gialloverde i voti erano cresciuti, non calati. Dobbiamo essere più visibili”. Alzare la voce. Farci sentire. Crescere, insomma, ma in fretta.

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Il Pd non si lascia sfuggire l’occasione di alzare a sua volta la temperatura: le regole del ballottaggio valgono per tutti. Né è un mistero che azzurri e Dem metterebbero la firma su una “maggioranza Ursula”. Letta convoca la war room al Nazareno: “Gravissimo, Draghi vada avanti” tambureggia. Alla Lega fa gioco. Il partito, in apparenza, fa quadrato intorno al Capitano. Non è il momento di aprire processi. “C’è una sola Lega, i candidati li ha scelti il centrodestra –  va morbido Zaia – il segretario deve fare il segretario”. Borghi nega rappresaglie rispetto alle comunali: “La delega fiscale è tutta un’altra partita”. Bagnai: “Serve rispetto, non c’è una parola sulla pace fiscale”. Ma comunque vada, il 18 ottobre segnerà l’apertura del congresso di fatto della Lega: “Cosa succederà? Niente fino a febbraio – pronostica un leghista lombardo di rito giorgettiano – Serve tempo per lanciare l’operazione centrista”. Il tempo, però, lo scandirà il segretario. Che non è detto voglia finire cotto a fuoco lento.

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