“Strappare lungo i bordi” è l’ultima fatica di Zerocalcare, all’anagrafe conosciuto col nome di Michele Rech, che a noi Millennial ha regalato l’ennesimo privilegio di una seduta psicoterapeutica aggratis. De botto e senza senso, come direbbe lui. In realtà sul “de botto” potrei acconsentire senza troppa ritrosia, sul “senza senso” invece quante ne avrei da dire, Michè. Mettiamoci comodi al ritmo onomatopeico che fuoriesce dal crollo delle terga su un divano e iniziamo il nostro viaggio.
L’effetto collaterale chiamato Zerocalcare
Chi non è nuovo all’universo di Calcare, alle sue modalità espressive e alla sua personalità disadattata, ha capito come approcciarsi ad una sua opera. Sa cosa dovrà aspettarsi quando finirà, la coltre di sensazioni che avvolgeranno le nostre membra da trentenni e le riflessioni indebite con le quali dover convivere a tempo indeterminato.
Io, conquistata ormai dal giorno in cui il mio spacciatore adorato di fiducia che s’appella come il Magnifico mi mise tra le zampe “il Polpo alla gola”, ho iniziato a sviluppare da allora una sorta di atteggiamento rassomigliante a quello del nipote che viene invitato a pranzo dalla nonna: sa che mangerà bene, è una garanzia, ma è consapevole anche che quell’ingordigia la pagherà cara, perché 3 kg di polpette e quel trittico di sott’oli casarecci non verranno digeriti facilmente.
Ecco, quando mi siedo in platea in prima fila, ansiosa d’assistere all’ennesimo racconto di Calcare che lascia quella scia calamitante d’autobiografia e verosimiglianza, mi sento proprio così. Subisco gli effetti collaterali del nipote X, mi spazzolo ogni singola parola proferita e frecciatina malinconica travestita d’una ironia che ha la vestibilità di una calza, quel corrispettivo di denari necessario in grado di garantire un “vedo/non vedo” meritevole di riverenza. Rido e piango in aramaico nello stesso momento, un bipolarismo a cui ormai sono abituata e che mi fa sentire stranamente compresa, parte integrante di una generazione disillusa e fedele alla religione dell’overthinking.

Ma come? Zerocalcare non è quello che fa scompisciare con i suoi “disegnetti”? Sì, è lui, ma è proprio dietro la battuta, la licenza poetica del fumettista con la coscienza a forma di Armadillo, i continui rimandi alla tradizione culturale dei marmocchi cresciuti nei gloriosi anni ’90, che si fa portavoce di un ricettacolo di disagi – alcuni leggeri, altri da peso massimo – che spesso vengono solo sussurrati per pudore d’esser considerati pusillanimi.
La catarsi di Strappare lungo i bordi
“Strappare lungo i bordi” è un altro manifesto, l’ennesimo di sua impronta, che rompe la quarta parete con l’obiettivo di dire ad alta voce quello che si cerca nei modi più disparati di reprimere e relegare in anfratti della coscienza con la fisionomia di monolocali angusti e inabitabili. Una stanza delle necessità che si tiene chiusa per anni e puzza di naftalina.
Michele la apre alla sua maniera, intervallando l’andirivieni con i soliti aneddoti di vita ordinaria che tanto ce lo fanno amare, seguiti ad intervalli irregolari dalla frase tipo di Secco che “vole annà a magnà er gelato” anche nelle situazioni drammatiche per definizione e significato.
La metafora dei bordi, la linea tratteggiata che ogni essere socialmente integrato dovrebbe seguire, tanto per ricordarsi che se il foglio lo strappi male ti perdi quegli obiettivi col potere di farti sentire “giusto” e adatto entro i limiti di un’attitude mentale desiderosa di saperti realizzato solo se ci riesci. Gli altri, i dannati, gli sfortunati, gli scansafatiche e i diversi, restano a vagare nel limbo della vita, con uno zaino Invicta sulle spalle che – tra aspettative personali, sociali e famigliari – arriva ad ammalarsi di obesità, incrinandoti la schiena.
Calcare non è nuovo a quei temi pericolosi che per sopravvivere meglio si suole nascondere in fitte spirali di rovi che manco Malefica quando voleva vietare il passaggio a Filippo e alle sue opinabili intenzioni di voler perlustrare le cavità orali ad una disgraziata in coma. Lo aveva fatto con “Macerie Prime”, altro leggendario esempio di inclusione empaticamente condivisibile, con il suo team d’oro pronto a far squadra davanti alle brutture della precarietà immanente. Perché è questa la sua forza, nella sua consapevolezza da sociopatico, Zerocalcare trasmette l’importanza necessaria dell’unione, dell’immedesimazione e soprattutto della parità, un valore che oggi viene considerato spesso alla stregua del cespuglio sbilenco nelle recite scolastiche.

Perché è vero, puoi autodefinirti il più solo degli stronzi per scelta tua o degli altri, ma quando il rumore dei tuoi pensieri assomiglia a quello degli altri capisci che non sei l’unico a portare quello zaino Invicta sulle spalle e a subire le conseguenze di quel peso. Quel filo d’erba in mezzo agli altri, su cui Sara fonda la sua filosofia sana e consapevole, ti regala quel senso d’appartenenza a cui chiunque anela, soprattutto in quei momenti dell’esistenza che ti spingono ad andare avanti a carponi e a luce spenta.
Michele si fa portavoce delle sconfitte di un’intera generazione, le più difficili da accettare che talvolta si danno in pasta al tempo nella speranza di riuscire a renderle meno permanenti. La morale, la responsabilità pedagogica di cui dobbiamo farci carico, è l’accettazione delle cicatrici che infittiscono il corollario della nostra identità. Una presa di coscienza che ad un tratto si concretizza, quando ti scontri con l’immutabilità di alcuni temi, nel silenzio di gesti estremi che fanno da monito senza averne l’intenzione reale.
Grazie Calcà, ho guardato quel foglio sgualcito, i bordi non li ho seguiti neanche io. Improvvisare non è così male, in fondo.
ALESSIA LIO
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