Trent’anni da Capaci, trent’anni di retorica e di malizia e ancora non finisce

Trent’anni da Capaci, trent’anni di retorica e di malizia e ancora non finisce

Trent’anni da Capaci, trent’anni di retorica e di malizia e ancora non finisce. Capaci e via D’Amelio hanno fatto la fortuna di un mucchio di parassiti e mestieranti del populismo legalitario, parenti di vittime, leccaculi, ragazzotti col foulard subito imbarcati nei circoli interni alla Rai, all’Articolo 21. ma non è questo il male peggiore, il peggio resta l’insinuazione perenne su cui non pochi mestatori e inetti hanno fatto carriera: dietro i due attentati c’era Berlusconi, è lui che ha armato la mano di Totò Riina “’u Curtu”, lui che diceva a Riina cosa fare. Figuriamoci! Berlusconi sopra la cupola mafiosa? Ditelo ai grillini e ai fanatici, ditelo agli incapaci che su Capaci mangiano da una vita. Berlusconi che in Sicilia, e non solo, scende a patti con la mafia invece sì, certo, come i Gardini, gli Agnelli, come tutti gli industriali di questo Paese; come perfino Mussolini che arrivato a piana degli Albanesi si sentiva dire dal mafioso Ciccio Cuccio: “Che bisogno aveva, Voscienza, di tanti sbirri, qua nessuno la tocca, qua comando io”. Il Duce storceva la bocca, faceva deportare il mafioso Ciccio Cuccio, ma quando il prefetto di ferro Mori arrivava troppo vicino alle contiguità dei gerarchi con Cosa Nostra, doveva fermare anche lui come sessant’anni dopo avrebbero fermato prima Falcone, poi Borsellino.

23 maggio 1992 ed ecco l’esplosione annunciata, cinquecento chili di tritolo lungo l’autostrada: fuori uno, fuori Falcone, mollato dai colleghi perché si era messo a lavorare coi socialisti, con Martelli. Diffamato in primis dagli sparafucile antimafia come Leoluca Orlando. 19 luglio e arriva l’esplosione catartica, definitiva, che due mesi dopo si porta via anche Paolo Borsellino il quale lo sapeva, “adesso tocca a me, hanno già portato l’esplosivo per finirmi” e difatti lo finiscono, lo scoppiano sotto casa di sua madre. E forse muore in pace Borsellino, se Dio vuole è finita, finita con l’attesa della morte che viene, finita con i corvi, le menzogne, le invidie, l’isolamento, i fraintendimenti, finita con questo Paese di Malebolge, finita questa vita da cani, che non è vita, così a sorridersi incassando ogni giorno il disprezzo e l’odio dello Stato che difendi e che non sa difenderti, non vuole, ti condanna a morte e ti ci manda. Diceva Leonardo Guarnotta, altro giudice del pool antimafia, che vedendo Falcone al pronto soccorso, ormai in agonia dopo l’apocalisse di Capaci, lo aveva trovato perfino sereno. Per forza, con tutto quello che gli avevano fatto passare in vita. Per cosa sono morti, Falcone, Borsellino e gli altri, le toghe, gli sbirri che non si piegavano alle logiche, alle diplomazie mafiose, per cosa sono stati polverizzati, vaporizzati a 30 anni di distanza?
Qualcuno forse ricorderà la miseria del bisticcio fra magistrati, alcuni anni orsono, la Boccassini e Ingroia, sulla pelle di Falcone (e poi anche di Borsellino). Veramente Ilda aveva solo espresso un parere, per quanto aspro, dopodiché l’altro non la finiva più di fare la vittima e di scomodare i colleghi caduti, come gli capita d’abitudine, sicché se anche uno non ricorda gli scazzi di allora può benissimo attingere a quelli di adesso. L’antimafia storicamente non è meno frazionata della mafia, sia tra i parenti delle vittime che poi si trovano un modo di stare al mondo e perfino un mestiere, una carriera, sia all’interno della stessa magistratura come testimoniano gli scontri storici, ma ben poco epici, dei primi anni Duemila tra Giancarlo Caselli e Piero Grasso, che ai convegni si mandavano siluri che il pubblico non capiva ma gli addetti ai lavori capivano benissimo. Finita la mafia oggi? La verità è che a 30 anni dalle mattanze ancora spaccano i busti dedicati ai giudici martiri, ammazzano e lasciano bestie decapitate davanti alle scuole, tutto come prima, come sempre e qui bisogna pur dirlo che non è vero, come dice la sorella di Falcone, Maria, che “la mafia ha paura”, questa è la solita balla autoconsolatoria che giustifica tante cose ma la verità lugubre è che l’Antimafia dei pannolini e delle centovetrine non è servita ad instillare un nuovo costume, un’etica diversa ma solo a piazzarsi nei centri e nelle cosche di potere, oggi come ieri come sempre. Così che a un convegno l’ex giudice Di Lello, anche lui del pool, poi senatore di Rifondazione Comunista, poteva parlare di “Parate antimafia” spiegando “se posso le evito, c’è ben altro da fare”.
Ma le parate antimafia sono sempre ben frequentate, esattamente come le altre mafiose con la Madonna in processione inchinata sotto casa del boss. Allora a che è servito morire, vivere, agitare agendine rosse, a cosa i convegni, la colonizzazione moralistica delle scuole, le magliette, le navi antimafia e tutto il resto della coreografia circense? A piangersi addosso, a sparlarsi addosso in ragione del potere antimafioso raggiunto, quello ha più finanziamenti di me, quella appare più di me.

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Quante volte abbiamo visto le foto dei due amici, sorridenti, sprecate nell’ambizione sciocca, nella cialtronaggine, nel carrierismo. Nella meschinità. Quante volte abbiamo pensato: ma che c’entra, adesso, scomodarli ancora? Santi laici, santini dalle reliquie inesauste, ciascuno ne strappava un pezzo e ci andava in processione, mollando gomitate e calci negli stinchi ai compagni di giaculatoria. Per questo, sono morti esplosi, Falcone e Borsellino? Per quante carriere, di “colleghi”, di giornalisti, di ruffiani, di politicanti? Chissà cosa diranno, guardando giù. Chissà come rideranno, in modo malinconico come nella celebre fotografia. Troppo soli in fine di vita, troppo pieni di amici del cuore da postumi. Tutti piangenti come salici. Quanti ne abbiamo visti, conosciuti. Ne vediamo ancora oggi passare dal samba alle lacrime in diretta e subito tornare al trenino in hotel (a 5 stelle, nel giro antimafia ci si tratta bene). “I convegni non servono!” sbottò una volta col cronista Iacona il padre di uno ammazzato dalla mafia, ma si sbagliava, servono eccome a chi li mette in piedi, a chi non ne manca uno, una bella foto dei giudici martiri sullo sfondo e via, si parte nel segno dell’impegno per destinazioni radiose, con la speranza che portino a Roma o almeno a un assessorato.
Scorrono le figure dei Dalla Chiesa, i Terranova, i Basile, i Cassarà, i Montana, i Chinnici, i Costa, i Falcone, Borsellino, Caponnetto, riaffiorano le pagine di Falcone viene umiliato dal Consiglio Superiore della Magistratura che gli preferisce il vecchio e inesperto di mafia Meli a capo della procura di Palermo, per un gioco incrociato di ripicche, di meschinità e di invidie mascherate da garantismo. Ma è il lato umano quello più atroce, quello che andrebbe fatto studiare a memoria ad ogni studente, che capisse, che rinnegasse questo modo maledetto di essere italiani. Di Paolo Borsellino, basta il ricordo di Barbara Sanzo (ad Alexander Stille): “Aveva un grandissimo pregio, un’enorme umanità, si occupava sempre dei problemi degli altri, anche di noi del personale, le segretarie, i commessi. Se una aveva un figlio malato, il marito disoccupato, lui chiedeva se avevamo bisogno di aiuto’. (…) Un ottimo rapporto fu quello che si instaurò, per esempio, con Piera Lo Verso, vedova di una delle vittime del massacro della scuderia di piazza Scaffa. Quando il vicinato seppe che la donna collaborava con la giustizia, la sua macelleria cominciò a perdere clienti e finì per fallire. Fu costretta a impegnare i gioielli per tirare avanti. Venuto a conoscenza della vicenda, Borsellino le fece avere di tasca propria il denaro per riscattarli (…). Gli piaceva scherzare, stava al gioco. Era preso in giro da tutti per il suo forte accento siciliano. ‘Dì quattro’ gli dicevano. E lui, mite: ‘Quattciu.’ Loro ridevano”. S’imbatte in una ragazzina sedicenne, finita nel letto di un boss. La salva, la allontana dalla Sicilia, le ricostruisce una vita lontano e appena può va a trovarla. “La mia mafiosetta”, la chiama con l’affetto di un padre. Questo uomo finirà polverizzato al punto che un agente di polizia eviterà, pietosamente, ai giovani colleghi la vista dei suoi resti sparsi in via d’Amelio. Non esagerava il capo del pool, Antonino Caponnetto a dire (a chi scrive) di Borsellino: “Era un angelo, uno di quei rari angeli che ogni tanto il Padreterno manda su questa terra, che non li merita”.

Caponnetto, capo del Pool di Palermo, è l’eroe timido ma di ferro che le cronache di questi giorni trascurano relegandolo a un silenzio colpevole, un silenzio omertoso. Caponnetto “l’asceta”, o “testa pulita”, come lo chiamava Falcone, che se lo intervistavi ti faceva rispondere quello che voleva alle domande che voleva gli facessi. E se non gli andava la domanda, faceva barriera con una tazza di cappuccino usata come un ponte levatoio, pura sicilitudine. Ma se riuscivi a conquistarti la sua fiducia, se si convinceva che ci credevi sul serio, allora ti abbracciava sussurrando: “Quello che fai è importante” e allora andavi via dalla sua piccola casa alle porte di Firenze e finivi quasi per crederci e anche dentro una tormenta di neve non avevi più freddo.
A che sono serviti questi uomini se non a testimoniare che la mafia è stata più forte anche di loro, li ha digeriti e oggi è forte come cento anni fa, di più, perché ha plasmato definitivamente il Paese della sua lucida follia? “Tante volte mi chiedo” ammise il più giovane di quei giudici allora, Ignazio De Francisci, in un documentario trasmesso dalla Rai, “se ne sia valsa davvero la pena, dopo tutto quello che abbiamo visto, subìto. E non so darmi una risposta definitiva e razionale”. Ancora nel 2021, nel 2022 (vedremo, presto) quasi tutto il Mezzogiorno brucia di roghi dolosi, mafiosi, si spaccano busti di Falcone, si ammazzano animali in spregio. Ed è sempre più forte e diffusa la sensazione che lo Stato si vada arrendendo, nella constatazione di non riuscire più ad imporre il suo controllo, la “forza legale” di cui parla Max Weber. Si è ripetuto tanto di tutto negli ultimi anni: che la mafia si è evoluta, non spara più perché non ne ha bisogno, e insieme che è in difficoltà, accetta la collaborazione nigeriana per non soccombere a ‘ndrangheta e camorra che sono molto più forti. Di sicuro ha saputo trasfondere la propria economia criminale in quella legale, ha saputo dilatare la zona grigia fino a renderla indistinguibile. Ma c’è dell’altro, la “linea delle palme e del caffè” di cui parlava Sciascia non tanto come risalita della mafia politica ed economica al nord quanto la mafiosità assorbita, acquisita dal Lilibeo alle Alpi, entrata nel costume nazionale, nel sangue nazionale fino a modificarlo geneticamente, nella serena accettazione dello Stato. Ogni giorno qualcuno che dà fuoco al vicino col liquido del barbecue “perché faceva casino”. O gli spara per lo stesso motivo, o lo squarta perché non lo sopporta. A Bagheria, a San Luca? Anche a Bolzano, a Pavia. Non è lo stile mafioso, che va per le spicce, che “risolve il problema a mani nude” come diceva ‘u zu’ Totò?
Cosa sono le grandi periferie di Roma o della Lombardia, in mano a bande spietate di malavita nazionale o d’importazione, “del mondo”, come dicono gli ispirati, se non la conferma di fortilizi mafiosi dove neppure la polizia si fida ad entrare? Posti dove i bambini volano dai palazzi dopo essere stati abusati, dove viene perpetrato ogni genere di orrore e la gente fa quadrato contro gli sbirri. Non più solo a Palermo che resta truce, che tiene in odio e in sospetto lo Stato checché ne dica l’eterno Leoluca Orlando, o nella Piana di Gioia Tauro o sulla Sila o nel dedalo napoletano, anche nel cuore di Milano o in quello di Roma, capitale dove non si può più vivere, dove cinghiali, ratti, gabbiani pressano umani sempre più sporchi e rassegnati. Ci sono capolinea del bus, a Roma, che neanche nell’Africa tribale, con foreste di erbacce che impediscono la salita. E nessuno fa niente, nessuno dice niente. Poi, piaccia o non piaccia ai benpensanti, agli umanitari senza dubbi di sorta, l’afflusso incontrollato di chi entra peggiora le cose, le incancrenisce in violenza e confusione per la semplicissima ragione che lo Stato non argina più niente e si è tramutato in regime sanitario, duro, cattivo. E improduttivo. Paralizzato da leggi demenziali, dai suoi stessi compromessi e disservizi, dalla sua mostruosa disorganizzazione e convulsione, rispetta più chi delinque che chi riga dritto, amministra la sicurezza come una lotteria e la giustizia come un suk levantino e il puzzo di contrattazione delle sentenze lo sentono anche i più ingenui e sprovveduti. Falcone, Borsellino e tutti gli altri col loro sacrificio sembrarono volerci dire che un altro modo di essere italiani era possibile, che questi eroi contromano la mafia l’avevano messa in ginocchio, che “le battaglie in cui si crede non sono mai perdute” come diceva Caponnetto. Che in fondo è così banale il bene come il male. Ma a leggere come viveva Borsellino a Marsala nel 1986 c’è da rimanere sconvolti perché era lo Stato a farlo vivere così, come un detenuto senza colpe: “Io sono la procura di Marsala” diceva Borsellino scherzando sull’inesistenza dell’organico (…) Quando chiudono le saracinesche alle otto di sera, non c’è nemmeno un cane per strada. La vita sociale è una serie di circoli chiusi, circoli di bridge, comitive di cinque, sei, dieci coppie che si conoscono da anni. Ci sono molte logge massoniche. Saranno state due le volte che Paolo è uscito di sera nei suoi anni a Marsala, doveva stare molto attento nelle sue frequentazioni (…) Per persone come noi, che vivevano lontano da casa, con le famiglie altrove, era una cosa molto dura. L’unico divertimento era lasciare l’ufficio verso le dieci di sera e andare a mangiare qualcosa nel piccolo appartamento di Paolo sopra la questura, per cui pagava un normale affitto. Lui cucinava e io lavavo i piatti. Non era un bravo cuoco e quindi cercavo di convincerlo ad andare fuori.
Oggi ancora troppo sud non è diverso da Marsala di allora, è addirittura peggiorato e i giovani rassegnati. E risale la linea dell’orrore, navi di folli da quadro di Bosch, incubi di Bacon, di Ensor, decomposizioni di Géricault che prendono vita: foreste che bruciano, animali torturati, il sopruso come sistema, l’impunità come regola, la follia come etica, la mafia come stile di vita che oggi si chiama “gomorrismo”, i ragazzini boss a 15 anni, i femminicidi come pratica acquisita, gli stragisti stradali che si sdegnano se li vanno a prendere, il braccialetto elettronico come franchigia tecnologica, i don Mazzi come buen retiro di farabutti, il diritto mammifero per la ferocia viziosa dei figli, i balordi in combutta coi mafiosi come quello di Terrazza Sentimento celebrati dai siti laidi, i servizi pubblici focolai di mafiosità, i concorsi che finiscono regolarmente nella furia e nell’annullamento in fama di corruzione, Tar come quello del Lazio che annullano si direbbe a chiamata e non si capisce se sono deleteri o provvidenziali, una degenerazione della politica che ha dell’incredibile, regioni come quella siciliana che costano da sole come il Belgio e non rendono niente, governatori che partono carichi di promesse e subito scadono nei maneggi e nei vittimismi di sempre. Dio quanti se ne vedono, oggi come allora, di sceneggiatori e sloganisti. Le battaglie giuste, inevitabili non sono mai perse? Anche chi ci ha creduto comincia a dubitarne, ad essere esausto di combatterle sapendo di perderle in partenza perché in un Paese maledetto dove il valore dei migliori è mortificato dallo squallore dei mediocri.
Si alzano le colonne di fumo dei roghi tossici che coprono il cielo per giorni e giorni, la Giustizia è ridotta a una vecchia puttana, il Paese è l’unico ancora allucinato da mascherine, divieti psicotici, il capo dello stato e quello del governo girano in modo inquietante, quasi morboso per scuole dove tutti meno loro stanno imbavagliati, e intanto escogitano una peste al giorno, oggi quella suina, ieri il vaiolo delle scimmie, domani si vedrà. Tutto pur di tenere alto il terrore: non è mentalità mafiosa, non è andazzo mafioso anche se viene dal potere costituito? Lassù in cielo Falcone e Borsellino si guardano e stavolta non sorridono più: per tutto questo siamo saltati per aria? Sarebbe questa la mafia che, come tutte le cose di questo mondo, finirà per il solo fatto di essere cominciata? Sarebbe questo il Paese che ancora oggi ci celebra, ogni anno, per farsi meglio i cazzi suoi, nel parassitismo mediatico e morale che, come la mafia, non finisce?

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