vecchi musicanti impegnati che tanto denunciavano la società nei loro dischi oggi non denunciano più niente


Chi ha sperato nel “cambio di passo” è già disilluso. Draghi, il messia banchiere, non è diverso da chi l’ha preceduto, la sua ricetta è la stessa: chiudere, stritolare, se possibile ancora più forte, lasciare il Paese incamiciato a forza, sì che tutte le categorie sono, per usare un altro modo di dire idiota, “sul piede di guerra”. A turno ristoratori, modaioli, autotrasportatori, artigiani, puttane, sportivi, cinematografari, teatranti protestano, manifestano; solo una nobile schiatta brilla per fragoroso silenzio, e paradossale silenzio promanando dai canterini.
Le nostre ugole popolari, e anche nazionalpopolari non fiatano. Non insorgono. Non rivendicano. Non fanno niente. Il panorama musicale, lasciamo stare la fascia alta, dei musicisti sinfonici o operistici, è desolato, desolante. È spaccato in due. Da una parte i grossi calibri, i vecchi totem che campano bene amministrandosi, contando i diritti d’autore del repertorio inossidabile e aspettando, senza fretta, tempi migliori; nel frattempo sfoggiano mascherine su mascherine e non si stancano di consigliare reclusioni, chiusure, sacrifici, prudenza, a volte con accenti isterici. Perché si nasce spericolati, insofferenti, trasgressivi e si muore pavidi, saggi e francamente un po’ patetici: gente che per tutta la carriera ci ha marciato con la vita ribelle, dissoluta e vagamente dannunziana, magari all’amatriciana o ai tortellini, e adesso te la ritrovi a predicare continenza che neanche un frate cappuccino. Si può capire, chi il benessere l’ha raggiunto non rischia più, ha paura di tutto e di niente si cura se non di restare nel limbo. Ma il prato basso di quelli che vendono poco e niente e si salvano solo se possono suonare dove capita, a condizioni avventurose e spesso squallide, che possono durare per tutta la vita?
L’intero circuito di nicchia, del cantautorato alternativo che si ammanta “di qualità”, talmente di qualità che pochi l’apprezzano, è sparito, stritolato nella sua apatia. Chi scrive li conosce quasi tutti e non ce n’è uno che non si ponga, di riffa o di raffa, a sinistra del vecchio Partito Comunista Cinese, gente che dopo un paio di bottiglie comincia a intonare l’Internazionale e a rimpiangere, in modo preoccupante, soluzioni già naufragate, dall’esito criminale e sicuramente disastroso. E un po’ per convinzioni personali, a volte approssimative, e un po’ per lascito culturale, generazionale, ma anche perché sanno che il loro unico mercato è quello dell’antagonismo, della contestazione più o meno inscenata, critica serrata al capitale e pugno chiuso al Concertone sindacale che è sempre una bella vetrina e garantisce l’imprescindibile afrore dell’impegno. Solo che, a questo giro, non si impegnano. Restano impelagati in una rassegnazione amorfa, per niente rivoluzionaria. Vincolati come sono ad una etica-estetica di sinistra, non possono permettersi di andare contro a un governo di sinistra che impone restrizioni, anche perché si giocherebbero il circuito dei centri sociali, dell’Arci, delle feste di partito: molti arrancano alla bell’e meglio proprio con le commesse politiche e non sono in condizioni di discutere.
Sono ipocriti della più bell’acqua, ma non sono i soli e debbono pur campare anche loro. Ostentano disprezzo per il carrozzone sanremese, ma ogni volta, con discrezione, mandano il loro pezzo, puntualmente scartato perché a Sanremo si arriva per quelle spinte concomitanti che loro non hanno. Se colti sul fatto, barano: non ne so niente, è stata la mia etichetta, il mio manager. Ma le loro sovrastrutture sono risibili e scontano pessimi impresari, autogestioni suicide, case discografiche inconsistenti, scelte incomprensibili che fanno passare per ideologiche. Sono dei duri e puri senza tentazioni, ma se gliene passa una sotto mano non esiteranno ad artigliarla. Tutti questi artisti bohémienne bongré malgré, non si uniscono, non fanno rete, né comunella, né fronte comune. Si salvano con qualche concertino in streaming, ma è chiaro che non può bastare. Però non si oppongono, non fiatano, non contestano uno stato di cose che li va falcidiando, si guardano bene dallo scendere in piazza, la mitica piazza che tanto millantano nelle loro canzoni ma che non usa più.
Con tipico snobismo un po’ da disperati, ostentano un distacco che non gli appartiene e se mai detestano di un odio sordo i chierici che hanno tradito e vanno a svendersi all’Ariston o al primo talent che capita. La loro sudditanza è amara, deludente non tanto perché palesa un opportunismo un po’ straccione, ma perché dimostra una sconcertante mancanza di carisma: i vecchi si saranno anche rammolliti, ma almeno ai loro tempi hanno saputo sovvertire regole, agitare acque, tracciare nuove strade. Si sono messi in gioco, si sono cercati nemici e li hanno trovati, finendo per affermare uno stile, una sensibilità inconfondibile. Con la naturale ambiguità che è dell’artista, fra mille contraddizioni, con troppi legami e legacci dai partiti o peggio dall’attendismo sovversivo, ma se non altro si agitavano, non tacevano. Questi invece sono invecchiati dopo una vita di resistenza, sì, ma passiva. Vittimistica, spesso. Comunque sterile. Ma che cosa è infine un autore popolare se non ha il coraggio di rompere i coglioni, specialmente in un periodo di regime mascherato, di democrazia crocifissa? Se non sa intercettare uno scontento popolare e rappresentarlo, metterlo in musica?
È dura la vita dei musicanti impegnati, alternativi, antagonisti, “di qualità”: aspettano il Godot della rivoluzione ma non godono, vagheggiano soluzioni collettiviste ma restano monadi senza speranza, altezzosi l’uno verso l’altro e non possono neppure permettersi il lusso di una critica. La società concentrazionaria e alienante che per una vita hanno denunciato nei loro dischi mentre non c’era, adesso c’è, ha ghermito anzitutto loro ma non possono nemmeno denunciarla, altrimenti hanno chiuso. Ma hanno chiuso lo stesso e non lo sanno, o forse non vogliono saperlo.

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