Verso il baratro con allegria

La sensazione è che la politica sia morta. Sembra che non si sappia più che cosa chiederle. Oppure che le si chiede l’impossibile: si è arrivati a pensare di «abolire la povertà». I partiti boccheggiano perché anche loro sono disorientati. Forse abbiamo già raschiato il fondo di quel barile che, negli Anni Cinquanta, fece pensare al «Miracolo economico». Il ventennio fascista ha costituito una profonda cesura dal momento che dalla sua fine è come se la storia fosse ripartita da zero. Gli italiani si sono rimboccati le maniche per lavorare e si sono accostati con molta partecipazione al sistema democratico. I partiti avevano dei programmi chiari. Il Partito Monarchico (c’era anche quello) desiderava il ritorno del re; il Partito Comunista desiderava che l’Italia divenisse una Repubblica sovietica infeudata a Mosca; i socialisti erano portatori d’acqua del Pci (fino alla scissione saragattiana di Palazzo Barberini, nel 1947); i liberali avrebbero voluto molta libertà e poche tasse; infine c’era la Democrazia Cristiana, che merita un cenno a parte.

Perno dello Stato, la Dc viveva di rendita come argine al comunismo, anche se, sotterraneamente, c’era una convergenza dell’utopismo cristiano con quello comunista. Di fatto la Dc era criptocomunista tanto che, quando si dissolse, finì col fondersi col partito comunista. O ciò che ne era rimasto. La Dc ha comunque governato molto a lungo. Formalmente bigotta, era composta da politici competenti ma purtroppo interessati soprattutto ai vantaggi del potere. In totale non ha governato in modo infame, ma (cedendo sempre terreno alla sinistra, soprattutto dopo l’apertura al centro-sinistra del 1963) ha favorito la lenta decadenza dello Stato. Tanto che quando si è dissolta ha lasciato macerie e un debito pubblico mostruoso.

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Comunque, la grande svolta si ebbe con l’implosione dell’Unione Sovietica. Per gli anticomunisti venne meno il pericolo comunista e per i comunisti venne meno il sogno rivoluzionario. Da quel momento, l’intera politica è entrata in crisi. Gli italiani hanno scoperto che l’anticomunismo (come del resto l’antifascismo) non è una politica. Non basta essere contro qualcosa, bisogna anche sapere che cosa si vuol fare. E gli italiani invece, abbandonata ogni ideologia, si sono limitati a chiedere sempre maggiori vantaggi materiali.

Il risultato è stato che, nell’ultimo mezzo secolo, lo Stato italiano è passato da amministratore che chiedeva poco e forniva poco a demiurgo solutore di ogni problema. Una Divina Provvidenza con un Pozzo di San Patrizio costituito dal debito pubblico. La demagogia è stata imperante e i programmi di governo sono sempre stati un libro dei sogni. Il quale ovviamente ha creato milioni di creditori insoddisfatti.

È totalmente venuto meno il senso di responsabilità. La politica stessa, promettendo troppo, ha alimentato l’insoddisfazione degli italiani. La soluzione (sempre a debito) è stata la moltiplicazione esponenziale delle spese. La Divina Provvidenza di Roma batteva ogni record nelle regalie e nel ramazzare ogni problema sotto il tappeto. Aiutata in questo dal ruolo deleterio dei sindacati, della Chiesa, e della corale demagogia.

L’immaturità economica degli italiani ha dato il meglio di sé. Gli svizzeri, con i loro referendum, hanno ripetutamente votato contro il debito di cittadinanza, perché sanno che poi dovrebbero pagarlo loro. Gli italiani no, di questo non si sono preoccupati: paga lo Stato. Una persona ragionevole qui chiede: ma lo Stato non erano loro stessi, in fin dei conti? Domanda ingenua. No, non lo erano. Non in Italia. Perché, se lo Stato i soldi non li aveva, li prendeva a prestito. Chi avrebbe pagato? I figli? I nipoti? Gli stranieri? «Pensa Dio». Loro i soldi li volevano subito e in Italia, quando non si paga di tasca propria, tutti credono alle soluzioni miracolistiche.

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Col tempo questo ha provocato un’omologazione dei partiti, tutti disorientati e tutti convergenti. La destra è socialdemocratica , il centro è socialdemocratico, gli ex comunisti sono socialdemocratici e tutti sono liberali. Poi, improvvisamente, una serie di legnate educative. Come un cane in un gioco di birilli, dapprima il Movimento 5 Stelle. Poi la pandemia, l’inflazione, la guerra, tutti i mali eterni che la gente considerava definitivamente eliminati. E ci siamo ritrovati inermi dinanzi a tutto questo. I trucchi del passato non funzionano più. Abbiamo impegni stringenti con l’Europa. Non possiamo fare più debiti come prima. Le Borse ci minacciano e non è detto che la Bce ci possa difendere.

Mario Draghi si sforza di fare qualche salutare marcia indietro (per esempio per il reddito di cittadinanza e per il bonus del 110%) ma lui stesso sopravvive soltanto perché i partiti hanno paura di andare alle urne. Appena questa paura verrà meno, ripartiremo a tutta birra verso l’abisso.

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La sensazione è quella della fine della politica perché le abbiamo già provate tutte e abbiamo già speso quello che guadagneranno i nostri pronipoti, se l’Italia non fallisce prima. Né si intravede una soluzione: perché la causa di tutto questo è un inarrestabile disorientamento mentale; un imperdonabile distacco dalla realtà; il «dev’essere» anteposto al possibile; la convinzione che il governo sia colpevole di tutto e in compenso onnipotente. Oggi per esempio lo chiamano a rimediare alla siccità: «Non piove, governo ladro». Né Draghi potrebbe dire che non è affare del governo, perché – per la nostra mentalità – tutto è affare del governo. Ed è colpa sua se non siamo felici.

giannipardo1@gmail.com

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